La forte presa di posizione cinese contro gli Usa è dovuta anche alla conoscenza del punto debole americano, ricordato anche dal FT
Inchinarsi davanti a un prepotente è come bere veleno per placare la sete. Non è Sun Tzu. Ma Xi Jinping. Chiaramente, la supposta superiorità politica, culturale e morale europea ha ridotto la risposta della Cina alle continue provocazioni e millanterie di Donald Trump su dazi e tariffe a poco più di una notizia in breve. Ma al netto del gioco delle parti, perché la Cina alza i toni in questo modo? Quale asso nella manica vuole mostrare, questa volta non limitandosi a far scivolare indietro il polsino della camicia ma roteando minacciosamente il braccio?
Tutto ruota attorno al tech. Per l’esattezza, tutto ruota all’ennesimo bluff americano. Questo sì, immediatamente divenuto notizia mainstream sui nostri media. Apple abbandona la Cina e sfrutta il blitz diplomatico statunitense in India per spostare la produzione di iPhone e compagnia bella alla corte di Modi.
Ora, al netto dello strano tempismo fra l’altrettanto strano attentato in Kashmir che ha fatto salire alle stelle la tensione fra Nuova Delhi e Islamabad e garantito un alone da cavaliere bianco all’arrivo di JD Vance, date un’occhiata a questi due strappi, i quali ci mostrano quale sia il vero stato dell’arte nel comparto architrave delle equities statunitensi, la colonna portante delle MAG7.
Da un lato, Nvidia non è più in grado di generare hype senza che qualcuno le opponga la realtà dei freddi numeri. I quali ci dicono chiaramente come l’intero castello di carte della sua capitalizzazione record fosse basato su un presupposto fallace di infinitezza della domanda. Ma non basta. E attenzione, questo sarebbe già sufficiente in un mercato non totalmente dopato e manipolato, per tramutare quei multipli da Gpu fantasma in altrettante ragioni per posizionarsi short sul titolo.
Solo l’altro giorno, la cinese Huawei ha dato vita alla sua opzione DeepSeek, rivelando lo sviluppo di un nuovo chip in grado di operare su mercato cinese esattamente come l’H20 di Nvidia, il cui export è stato paradossalmente bloccato dai dazi della Casa Bianca.
E ora veniamo a Apple e alla scappatoia indiana. La quale può certamente garantire un’alternativa. Ma fra qualche anno. Perché la Cina non ha concesso licenze di produzione senza cautelarsi dal nemico in casa. Le autorità di Pechino bloccano lo spostamento di equipaggiamento verso altre destinazioni e impongono penali miliardarie contro lo stop alla produzione, poiché questo comporta un ricasco occupazionale negativo per il Governo cinese. Insomma, se Apple vuole andare in India, al netto di costi e condizioni tutte da verificare, occorre che ricominci da capo. Ovvero, costruisca le infrastrutture e le catene produttive pressoché da zero. Dopo aver scontato i costi della buonuscita dalla Cina.
A vostro modo di vedere, un uno-due potenziale di questa entità su due cavalli di razza del comparto, quanto si riverbererebbe sull’intero settore tech e sui costi di quei prodotti? Certo, ora va molto di moda la retorica degli scaffali vuoti nei supermercati che opereranno da dissuasore non più occulto e che spingeranno la Casa Bianca a più miti consigli. Non a caso, intervistato da Fortune, il direttore del porto di Los Angeles ha quantificato in sette settimane l’arco temporale di scorte garantite nel Paese. Dopodiché, qualche fenomeno da primi giorni di Covid potrebbe palesarsi.
La Cina conta su questo? Pechino alza i toni perché sa che un Paese il cui Pil è basato al 70% sui consumi personali non può permettersi di perdere il principale erogatore di merci a basso costo? Non solo. Pechino sa che la Casa Bianca può e deve giocare con le parole. Ma che Wall Street è altra cosa. E quando il Financial Times arriva a pubblicare un editoriale simile nel suo prestigioso approfondimento Alphaville significa che la festa sta davvero finendo e che il vaso di Pandora sta per essere scoperchiato.
Titolare un corsivo sulla propaganda dell’AI, I truffatori devono truffare non è cosa che accada tutti i giorni. Soprattutto sulle pagine molto compassate del quotidiano della City. Addirittura scomodando un neologismo come slopaganda, ovvero la propaganda dell’eccesso, del traboccare. Insomma, l’AI è stata un concentrato di manipolazione, finanza creativa, fenomeno social e poco, poco costrutto sui numeri reali.
Oggi questo potenziale di Re nudo è di fronte agli occhi di tutti. Ma se l’Occidente finge di non vedere e l’America si autoconvince grazie alla narrativa dello sbattere la porta di Apple, senza conteggiare il costo dei danni che quell’azione comporterebbe, la Cina sa che una seconda ondata di vendite a Wall Street dopo lo tsunami di volatilità di inizio aprile sarebbe decisamente poco politicamente spendibile per Donald Trump. A meno che il gioco delle parti, quello reale, comporti una crisi a tavolino per smuovere Jerome Powell dal suo torpore e vedere il mondo tornare a respirare grazie al Qe silenzioso, contemporaneo ma sotto mentite spoglie di Pboc e Fed.
In ogni caso, sul medio termine la questione non cambia: l’AI come ci è stata venduta e comunicata finora ha i giorni contati. Qualcosa dovrà accadere, qualcuno dovrà essere sacrificato. Come in estate la prova costume impone diete primaverili drastiche, così la fase avanzata della prova DeepSeek richiederà un drastico ridimensionamento di certe chimere. Lo stesso che il Financial Times ha già sposato come linea editoriale sul tema. Lo stesso che nel suo piccolo, il sottoscritto vi cerca di mostrare da settimane. Dati e incongruenze alla mano. Mentre ancora si parlava di Nvidia come del Sacro Graal.
Attenzione a guardare alla Cina come un pugile che si limita a incassare e controllare il match. Perché Pechino parte con almeno tre riprese di vantaggio. E ha pronta l’opzione nucleare del suo warfare finanziario, se servisse davvero. Altro che vendita di Treasuries.
— — — —
Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.