Sarebbe molto facile per la Cina far emergere scomode verità per gli Stati Uniti e le quotazioni dei titoli tech
Chinese solar panels, electric vehicles and drones are better than those made in the U.S. Is AI next?. Chi ha sostenuto questa tesi, ponendo sul finale l’interrogativo esiziale riguardo una possibile superiorità cinese anche in fatto di intelligenza artificiale?
A porsi questa domanda è stato Christopher Mims sul Wall Street Journal. E questo grafico parla chiaro. Il contributo dell’AI a livello di vendite nel primo trimestre di quest’anno ha garantito un punto percentuale aggiuntivo di Pil all’economia Usa. Un punto netto. Nemmeno durante la bolla tech del 2000 si arrivò a questi livelli.
Unendo i puntini, qualche preoccupazione dovrebbe sorgere. Soprattutto ora che la Casa Bianca ha platealmente accusato la Cina di aver violato gli accordi sottoscritti a Ginevra. E un Pentagono che leva il condizionale alla minaccia militare rappresentata da Pechino e invita a prepararsi alla difesa di Taiwan.
Gli Usa non scherzino con il fuoco, la risposta lapidaria del Dragone. Il quale si starebbe preparando a un bando sulle terre rare, di fatto portando allo scoperto il tallone d’Achille del boom AI statunitense. Piaccia o meno, il monopolio di quei materiali fondamentali per il comparto è di Pechino. Ma potrebbe non essere necessario scomodare un’opzione nucleare simile.
Date un’occhiata a questo estratto dell’articolo dedicato da Bloomberg al collasso di uno dei poster-boy dell’AI, quella Builder precipitata la scorsa settimana in insolvenza. Dopo aver attratto investimenti per oltre 450 milioni, fra cui quelli di Microsoft e della Qatar Investment Authority.
A cosa erano dovute le vendite straordinarie che venivano spacciate agli investitori, fino a quando lo schema Ponzi è saltato? Frutto di round-tripping con l’indiana VerSe. Ovvero, uno schema di fatturazioni bilaterali per gonfiare i numeri. Ma non basta. Si è scoperto che la chatbot Natasha, fiore all’occhiello dell’offerta per app, non era affatto basata sull’AI ai massimi livelli. Bensì su 700 umanissimi amanuensi indiani che scrivevano i prototipi. A mano. Nemmeno a dirlo, bugs ovunque e codici illeggibili.
Ora unite il puntino di Builder e della sua ingloriosa parabola a certi numeri che abbiamo appena letto nella trimestrale di Nvidia. Soprattutto, alla poco credibile incidenza in negativo del bando verso il mercato cinese, quando quest’ultimo risulta – contemporaneamente – pesare per oltre il 20% di quelle cifre record, fra Singapore, Hong Kong e Cina Mainland. Se volesse davvero fare male a Washington, Pechino sarebbe costretta ad arrivare alle restrizioni sull’export di terre rare? O basterebbe un affaire DeepSeek 2.0, questa volta non in modalità di avvertimento/stress test?
Date un’occhiata a quest’altro grafico. Compara la ratio di utile per azione di Palantir, titolo tech del momento e di BHP, colosso minerario. Qualcosa come 573x a 11x. Ma tranquilli, andrà tutto bene. Come con il Covid.
A proposito, date un’occhiata all’insider selling di Palantir. Ricorda molto quello di Moderna nel pieno della pandemia. Ma ovviamente, guai a mettere in dubbio certi totem. Esattamente come accaduto per interi trimestri con la truffa ESG. Salvo poi non trovare più nemmeno un sostenitore dell’agenda green a pagarlo oro.
E non pensiate che quanto appena descritto sia così lontano dalla realtà. Perché domenica pomeriggio, ospite della trasmissione Face the Nation in onda sulla CBS, il Segretario al Tesoro Usa, Scott Bessent, ha dichiarato quanto segue: What China is doing is they are holding back products that are essential for the industrial supply chains of India, of Europe. And that is not what a reliable partner does. Insomma, la Cina già oggi sta affamando le necessità industriale dei suoi partner con forniture a singhiozzo o con il contagocce del ricatto di elementi e prodotti essenziali.
Par quindi di capire che il timore di una contromossa sulle terre rare, sia essa una limitazione dell’export o un bando totale, sia stata presa molto seriamente a Washington. Ben più di un rumour o una mera deterrenza. E ai massimi livelli. Perché al netto delle generiche dichiarazioni riguardo settori essenziali, pare chiaro che una mossa di Pechino in tal senso scoperchierebbe appunto il vaso di Pandora della finanza creativa e dell’accountability estrosa del comparto tech/AI. Nvidia in testa.
Insomma, la guerra tariffaria torna in auge. Con coté di dazi su acciaio e alluminio per spingere l’Ue a pestare la proverbiale deiezione politica, il policy error che tramuta la controparte in avversario. E poi in nemico. La ragione? Se verso la Cina la mossa di passare all’attacco – citando apposta il nervo scoperto di Taiwan – appare appunto cautelativa al fine di giungere a un confronto diretto chiarificatore, a livello generale un aumento della tensione – magari accompagnato dal ritorno in grande stile della retorica sugli scaffali vuoti – appare chiaramente finalizzato alla creazione di un crollo a tavolino dei rendimenti obbligazionari.
Quei droni ucraini che hanno colpito le basi militari russe in Siberia, distruggendo una quarantina di velivoli, potrebbero operare da detonatore di un salto di qualità nella contrapposizione. Si parla con grande leggerezza di Pearl Harbour di Putin. Parole che pesano. Paragoni che devono far riflettere, stante il precedente storico. Perché al netto delle pantomime di Istanbul, Dio non voglia che quei droni siano armati, equipaggiati, dotati di componenti o – peggio – totalmente forniti da Paesi Nato.
Perché per quanto io continui a non credere all’ipotesi di una guerra tout court, temo che Mosca stavolta andrebbe ben oltre le minacce. E la Cina potrebbe dare manforte. Senza bisogno di sparare nemmeno un petardo. Soltanto facendo emergere scomode verità su cui Wall Street ha macinato almeno 5 trimestri di record e capitalizzazioni folli.
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