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Home » Economia e Finanza » Economia UE » SPY FINANZA/ La crisi peggiore del 2011 che non vediamo arrivare

  • Economia UE
  • Economia e Finanza

SPY FINANZA/ La crisi peggiore del 2011 che non vediamo arrivare

Mauro Bottarelli
Pubblicato 14 Settembre 2023
Palazzo Chigi (LaPresse)

Palazzo Chigi (LaPresse)

La crisi alle porte rischia di essere ben peggiore di quella che abbiamo vissuto nel 2011. Soprattutto perché non la vediamo arrivare

Se questo stesso articolo fosse stato pubblicato da Global Times, sicuramente non lo avrei trasformato in argomento di discussione su queste pagine. Ma se ad ammettere una dipendenza esiziale della nostra economia dalla Cina è Il Sole 24 Ore con un articolo dal titolo Forte recupero delle vendite dirette italiane in Cina (+45,6%), l’Italia gioca la carta del partenariato, casualmente pubblicato a meno di 48 ore dallo strappo consumato al G20 di Nuova Delhi, allora vale la pena. Non tanto per i numeri, decisamente eloquenti e che potete trovare nel pezzo originale, bensì per il segnale implicito che proprio quella volontà di ridiscussione così platealmente sbandierata dal Governo fin dal suo insediamento lancia al mercato: non avendo strategia migliore, trattiamo Pechino come fanno i bambini con i cani. Ovvero, mostriamo di non aver paura. Pur avendola. Perché prendendo per buona l’assenza di pressioni Usa rivendicata dalla Premier, i nuovi equilibri sono sotto gli occhi di tutti.


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Per la prima volta dal 2003, gli Usa importano beni più dal Messico che dalla Cina. E lo stesso Canada sta diventando partner strategico. Il Covid ha imposto filiera corta e interdipendenza basata su alleanze salde. Politiche prima che commerciali. Con la sua reiterata volontà di stop al memorandum firmato dal Conte-1, addirittura giustificata dal ministro Tajani con i numeri deludenti nell’interscambio che questo articolo letteralmente ridicolizza, Roma cosa vuole dimostrare? E a chi?


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Res ipsa loquitur. I fatti parlano da soli. E attenzione, perché la pazienza cinese è nota. Ma anche strategica. Si attende che il nemico abbassi la guardia o sia irato, salvo poi colpirlo. Confucio. Mao Tse Tung. Sun Tzu. A mio avviso, questo non è il rischio reale. La Cina sa che l’Italia è strategica. Come lo sapevano gli Usa fino al mezzo reset globale del Covid. E non solo a livello economico. Anzi, quell’aspetto appare paradossalmente residuale. L’Italia è ponte del Mediterraneo, è tramite fra Est e Ovest. Ma ancor più fra Sud e Nord. L’Africa che guarda a Lampedusa è colonia cinese. Piaccia o meno. E persino la Russia comincia a espandersi. Quindi, nessuna vendetta. Ma qualcosa di peggiore.


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Perché la sindrome Tafazzi che pare essersi impossessata del Governo non tange Pechino, la quale ha tutto da guadagnare dall’accettare una trasformazione del memorandum 2019 in partenariato sul modello del 2004. Ma se mai, un domani, l’Italia dovrà ristrutturare il proprio debito oppure operare scelte obbligate come quelle greche di privatizzazione di assets strategici per fare cassa – come già oggi vorrebbe fare il medesimo ministro degli Esteri che mostra di non conoscere nemmeno i numeri dell’interscambio col Dragone – a quali condizioni di acquisto, prezzo e governance la Cina accetterà di subentrare, magari con modalità non maggioritaria come accaduto con Cosco nella proprietà del porto di Amburgo?

La pazienza cinese è nota, ribadiamolo. E anche il pragmatismo nel non occuparsi del colore del gatto, bensì solo del fatto che riesca a catturare i topi. Ma è chiaro che, proprio in virtù del mero interesse di parte e mercantilista, quel leverage Pechino lo sfrutterà. Lo stesso leverage che abbiamo rivendicato al G20 come una vittoria autarchica. E attenzione a quanto sta avvenendo anche più vicino. Nel giardino di casa.

In tal senso, mi porto avanti. Questo grafico susciterà un’ondata di consolatoria e autolesionistica Schadenfreude. Lo so già, non fosse altro per la fresca decisione presa da Berlino riguardo lo stop ai ricollocamenti di migranti dall’Italia. Qui però la questione è seria. Dannatamente seria. E di colpo, la decisione del Governo Scholz di dare vita a un piano triennale di aiuti alle PMI da quasi 30 miliardi assume i contorni della necessità. Emergenziale.

Le insolvenze corporate in Germania stanno esplodendo. A giugno, 1.548 aziende hanno alzato bandiera bianca. Bancarotta. Un sobrio +36% su base annua. E prendendo il dato a livello semestrale, la prima metà dell’anno ha segnato quota 8.571. Rispetto allo stesso periodo del 2022, +20,5%. Chiaramente si tratta di PMI. E il ragionamento che sorge spontaneo è il seguente: la fornitura e subfornitura italiana all’economia teutonica è indirizzata principalmente alle grandi ditte, ai marchi prestigiosi come quelli automobilistici. O dell’industria pesante. C’è un problema, di fondo. Quelle PMI andate a zampe all’aria come mosche dopo una passata di insetticida, perché sono crollate?

Certo, i tassi pesano. Le banche magari restringono gli standard creditizi. Ma parliamo della Germania. Ovvero, un Paese che rispetto al nostro parte con le caviglie libere dai pesi della burocrazia opprimente. E dove, nonostante le tasse siano alte, l’evasione fiscale certo non è quella del Belpaese. Diciamo che trattasi di un vantaggio non da poco. E difficilmente imputabile alla Bce matrigna. O all’euro. Quelle aziende falliscono perché il rallentamento tedesco è molto peggiore, più netto e drastico di quanto crediamo. I consumi sono a picco. E gli ordinativi di luglio con il loro sprofondo lo confermano. Ora, poi, ecco palesarsi il rischio energetico. Ancora una volta. E nonostante i 50 miliardi di salasso per nazionalizzare Uniper. L’inflazione, poi, è tutt’altro che battuta. Anzi. E proprio oggi la Bce è chiamata alla sua decisione forse più delicata dall’inizio della pandemia. Più simbolica che operativa. Ma dirimente.

L’Italia sconta un ritardo di tre mesi rispetto alle dinamiche macro tedesche, solitamente. Ma oggi anche un fardello chiamato superbonus che rischia di far esplodere i conti e dinamiche bancarie che vedono le insolvenze già in crescita, stante livelli di concessione creditizia precauzionalmente in assetto da allarme rosso. Da almeno un trimestre. In questo contesto, a inizio ottobre si torna a emettere il Btp Valore. Con cedola trimestrale. E proprio oggi, Morgan Stanley apre l’armadio del 2011 e tira fuori il rischio spread. L’odore di naftalina è pungente. E mette i brividi. Perché a fronte delle insolvenze corporate, la Germania ha già innalzato un firewall da 30 miliardi in tre anni. Qui ancora si discute sulla modulistica per la concessione dei fondi post-alluvione in Emilia-Romagna. La crisi alle porte rischia di essere ben peggiore di quella del 2011. E non solo perché si innesca su dinamiche debitorie molto più squilibrate e con un playbook della Bce ormai a corto di conigli da estrarre dal cilindro. Bensì perché non la vediamo arrivare.

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Tags: Governo MeloniInflazioneRecessioneAntonio TajaniEconomia Germania

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