Gli Usa hanno deciso di colpire con dazi l'oro proveniente dalla Svizzera. Non si tratta di una mossa casuale, ma strategica
La notizia ha immediatamente scatenato reazioni degne di miglior causa. In seno al regime tariffario del 39% imposto da Donald Trump alla Svizzera, ecco che le Dogane statunitensi rendono noto come le barre elvetiche da 1 kg di oro (o 100 once) non usufruiranno di alcuna esenzione. E non dal 7 agosto. Bensì dal 31 luglio, quando appunto le US Customs hanno riclassificato quell’asset come categoria soggetta a tariffa. Di conseguenza, soggetta anche al suo aumento. Drastico.
Perché parlo di segreto di Pulcinella che non meriterebbe tanto clamore? Semplice. Per quale ragione gli Usa avrebbero dovuto imporre proprio alla neutrale, piccola e apparentemente innocua Svizzera la tariffa più penalizzante in assoluto sull’export?
E non basta. L’altro giorno la Presidente elvetica è corsa a Washington per cercare di tamponare immediatamente il ricasco economico della mossa statunitense. Otto ore dopo l’atterraggio, è decollata di nuovo per tornare a casa. E non soltanto senza un accordo o un memorandum d’intenti almeno verbale. Senza nemmeno un rinvio per continuare a trattare. Unico caso in assoluto. Tutti gli altri Paesi, tutti, hanno ottenuto qualcosa dagli stop-and-go sistemici della strategia commerciale della Casa Bianca. Tutti tranne la Svizzera.
Pensavate forse che nel mirino ci fossero gli orologi? Avete sentito mai parlare di concorrenti della Rolex con sede in Wyoming? O magari il Toblerone del Colorado che non sopporta più la concorrenza dell’originale elvetico? O l’Emmental che il Wisconsin, lo Stato dei formaggi, vede come il fumo negli occhi? Magari la Hanes non sopporta che il cotone delle t-shirt della Calida sia reputato migliore di quello delle sue mitiche Beefy-T?
Ovviamente quella scelta era legata all’oro e alle sue esportazioni. E al netto di quanto vi ho raccontato al riguardo durante tutto il primo trimestre record di quest’anno, questo grafico dice più di mille parole rispetto al controvalore delle esportazioni auree svizzere negli Usa.
Dopo aver riempito i caveau del Comex, gli Stati Uniti vogliono operare sul prezzo dell’oro in maniera ancor più diretta che attraverso i derivati? Attenzione a farsi ingannare da chi legge questa mossa unicamente come un gioco sugli shorts. Ovvero, limitare la disponibilità di oro fisico che – formalmente – sottende le negoziazioni meramente speculative legate all’oro di carta. Qui in gioco c’è molto di più. E di più strategico.
Certo, cercare percorsi alternativi per ottenere barre da 1 kilo sarà molto complesso. Ad esempio, una via potrebbe essere l’acquisto di quelle da 400 once sul mercato londinese. Salvo poi operare una nuova fusione in raffinerie statunitensi. O, comunque, non svizzere. Insomma, comunque sia, il prezzo ne risentirà. Al rialzo. E questa è infatti la reazione dei futures dell’oro alla pubblicazione della conferma giunta dalle US Customs.
Ma ciò che conta è altro. La pressione che questo regime tariffario impone sul sistema di raffinazione svizzero punta infatti a riaffermare il ruolo degli Usa come hub mondiale non solo per la determinazione dei prezzi, ma anche per la lavorazione del materiale fisico. Insomma, in tempi in cui le Banche centrali scelgono l’opzione aurea per le loro riserve (spesso a discapito dei Treasuries Usa, vedi la Cina) e creano quindi i presupposti per un silente gold standard parallelo e globale come risposta al monetarismo folle dei Qe perenni, gli Usa sembrano voler dire che saranno loro a determinare regole e condizioni di questa rivoluzione/restaurazione.
Siamo insomma di fronte a un punto di strozzatura progettato politicamente a tavolino per imporre una nuova geopolitica di dove e come viene operato il fixing del prezzo di riferimento dell’oro. Ma c’è dell’altro. Casualmente, lo scorso febbraio negli Usa comparve uno studio in base al quale una rivalutazione delle riserve auree al prezzo di 2.800 dollari l’oncia (il fixing dell’epoca) avrebbe potuto generare un introito di 800 miliardi per il Tesoro Usa. Con l’oro che oggi ha sfondato 3.500 dollari e che, in base a quanto sta innescando la mossa degli Usa sui dazi pare destinato a bersi la Maginot dei 4.000 dollari prima della fine dell’anno, quanto potrebbe introitare Scott Bessent?
E casualmente, il 1 agosto scorso sul sito del Board dei governatori della Fed compariva un articolo/studio dedicato proprio alle esperienze estere di rivalutazione delle riserve auree. Senza obbligo di vendita del materiale fisico. Tutte coincidenze? Pensate ancora che a Washington abbiano agito in questo modo perché spaventati dal ruolo globale dell’Ovomaltina nelle colazioni?
Ma ancora non è finita. E per capire ancora meglio, occorre sempre citare un articolo del Financial Times. Ma della scorsa settimana. E in questo caso, passato sotto silenzio. A detta del quotidiano finanziario britannico, gli investitori del Regno Unito da inizio 2025 hanno acquistato un numero record di monete d’oro per mitigare l’aumento della tassa sui capital gains azionari e monetizzare sull’aumento del prezzo del metallo prezioso.
Stando a dati ufficiali diffusi dalla Zecca di Sua Maestà, infatti, le transazioni on-line per l’acquisto di oro fisico nel primo trimestre dell’anno fiscale 2025-2026 hanno toccato un livello senza precedente, segnando addirittura un +115% rispetto allo stesso periodo del 2024. Anno che, comunque, vedeva la Banca centrale cinese e altri Istituti legati ai Brics già attivi su livelli record nell’acquisto di oro fisico per diversificare le proprie riserve.
Lo stesso World Gold Council ha confermato la tendenza nel suo comunicato del 31 agosto, in base al quale la domanda per barre e monete nel Regno Unito avrebbe segnato un +17% su base annua. Percentuale che sale al 72% quando viene interpellata la Solomon Global, azienda britannica specializzata in vendita di prodotti aurei fisici e che ha confermato un +72% nel primo semestre del 2025 rispetto al seconda del 2024. Stando a un sondaggio fra 14.000 clienti, proprio l’aumento della tassa sui capital gains rappresenterebbe il motivo principale per l’acquisto di oro fisico, almeno stando al 42% degli interpellati.
Ma ecco che al secondo posto con il 26% compare come motivazione wealth protection. E al netto del fatto che la tassa sui capital gains si applica anche a monete di oro, argento e platino che non siano prodotte della Royal Mint e che, comunque, a detta di alcuni (interessati) analisti di settore l’acquisto di oro fisico esenta da un costo fiscale ma ne impone un altro (transazione, assicurazione e stoccaggio), il timore – fino a oggi e alla mossa Usa solo sussurrato – è quello di un mercato clandestino on-line che trovi formule by-pass per ampliare la platea di monete acquistabili con lo status di legal tender britannico.
Quindi, ampliando anche la platea di acquirenti e il possibile aumento della percezione dell’investimento in oro fisico come alternativa fai-da-te a piani strutturati e istituzionali di tutela del patrimonio per clientela retail.
Quanto tempo è che vi dico che l’oro è l’unica alternativa credibile a un mondo di debito, inflazione galoppante, speculazione sistemica e monetizzazione dei deficit via tipografia Lo Turco? Forse non mi sbagliavo. Sono certo che il vostro potere d’acquisto sia d’accordo.
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