STOP UE SU AUTO BENZINA E DIESEL/ Tutto il rischio della transizione green sulle Pmi italiane
Il passaggio obbligato all’elettrico mette le piccole e medie imprese italiane dell’automotive in una condizione molto difficile da affrontare

Com’è noto, la commissione Ambiente del Parlamento europeo ha approvato lo stop alla vendita di auto e furgoni con motore a carburanti fossili (benzina, diesel e gpl) dal 2035. Il testo passerà al vaglio della plenaria del Parlamento europeo il prossimo mese. E l’esito non è scontato, dato che il consenso politico attorno a questo fermo è avvenuto a stretta maggioranza (46 voti favorevoli, 40 contrari e due astensioni). Viene così ratificato il pacchetto Fit for 55 della Commissione insieme alla proposta di Bruxelles che prevede la vendita di auto e furgoni a sole emissioni zero dal 2035.
Tra gli altri emendamenti approvati, una proposta per finanziamenti mirati per garantire la transizione più giusta e una metodologia comune dell’Ue per valutare l’intero ciclo di vita delle emissioni di CO2 di automobili e furgoni immessi sul mercato comunitario.
Come si evince anche da questa vicenda, l’Europa marcia spedita verso la transizione ecologica. Evidentemente, al di là delle dichiarazioni, i costruttori – e, più in generale, la grande industria – sono convinti del passaggio. È giusta questa politica economica o, come dice qualcuno, sarà la distruzione dell’economia europea?
Diciamoci prima di tutto una cosa: l’Europa progetta il suo Green Deal quando si rende conto del suo ritardo tecnologico e industriale rispetto a Usa e Cina. Per citare un dato, tre anni fa l’85% di investimenti in intelligenza artificiale si registrava in imprese americane e cinesi (McKinsey Global Institute). Ed è in quel momento che Bruxelles pensa di rispondere alla riconfigurazione della globalizzazione – mercato sempre meno globale e sempre più regionale – rilanciando le sue filiere nella prospettiva della transizione.
La risposta alla crisi climatica è anch’essa presente. Ma la radice del ragionamento è questa: se non innoviamo la nostra industria, questa morirà. Del resto, a differenza di Usa e Cina, l’economia europea nel triennio 2017-2020 – prima del Covid quindi – rallenta molto, tanto che chiamiamo quel periodo “gli anni della crescita debole”. L’Europa fa quindi un grande sforzo che trova concretezza nel Next Generation Eu e che porta la Bce a indebitarsi di oltre 1.000 miliardi. È naturale che questo indebitamento non può che avvenire sul terreno dell’innovazione digitale, tecnologica ed energetica: nel caso dell’automotive, ciò significa auto elettrica.
Per le ragioni qui esposte, la transizione è ineludibile. La vera domanda è, semmai, se la gestione della transizione sia efficace ed efficiente, anche sul piano economico e occupazionale.
Non c’è dubbio che si tratti di un passaggio molto complicato, soprattutto per un Paese come l’Italia che non può più annoverarsi tra i grandi costruttori di auto, ma, certamente, resta forse il fornitore più importante per quel che riguarda la componentistica ad alto valore aggiunto. La stragrande maggioranza delle imprese di questo comparto sono piccole imprese. Eppure realizzano un prodotto che il mondo ci riconosce come eccellente. Sono, tuttavia, le imprese che più faticano a stare al passo di questa transizione. Perché? Perché la spinta iper-regolatoria è potente e, fisiologicamente, il piccolo soffre questi processi di trasformazione indotti.
Ora: che fare? L’attenzione ai livelli occupazionali non basta. Bisogna cercare di non perdere aziende di valore a causa degli eccessi regolatori che pur orientano la transizione. E, soprattutto, sostenere la loro innovazione: non possiamo pensare che questi costi ricadano interamente sulle spalle degli imprenditori. È vero, il Pnrr prevede di finanziare questo passaggio. Ma le piccole imprese soffrono la burocrazia. E rischiano di restarne fuori.
@sabella_oikos
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