STORIA/ 1940, capitano Todaro: come restare uomini in una guerra sbagliata

- Alberto Leoni

Ottobre 1940, in pieno Atlantico il comandante Todaro, dopo aver intercettato e affondato il piroscafo “Kabalo”, porta in salvo alle Azzorre i 26 nemici superstiti

seconda_guerra_mondiale_soldati_italiani_1 Foto dal web

Nell’agosto 1941 i principali combattimenti si svolgevano in Russia, dove l’Armata Rossa tentava di contrattaccare la Wehrmacht e continuava a subire perdite terrificanti. In quelle settimane venne annientata un’altra colossale sacca intorno a Smolensk e le forze tedesche avrebbero potuto arrivare a Mosca, ma l’Alto Comando germanico diede la priorità alla conquista dell’Ucraina, dove era concentrata la maggior parte delle forze sovietiche.

A questa operazione prese parte anche il Corpo di spedizione italiano in Russia con la divisione “Pasubio”, che entrò in linea all’inizio del mese sul fiume Bug. L’attacco italiano ebbe pieno successo e gli italiani mostrarono un’efficienza e un addestramento superiore a quello sinora dimostrato dalle nostre forze armate. Se questo può essere considerato positivo, va comunque ricordato che la guerra non è un campionato di calcio: nel senso che c’è poco da essere orgogliosi se i nostri soldati attaccavano un popolo senza un motivo che non fosse ideologico.

Quando i nostri soldati entrarono in Russia presero anche contatto con un mondo fino ad allora sconosciuto: quello della barbarie nazista. Le popolazioni polacche e russe venivano costantemente massacrate e brutalizzate dalle SS e l’impatto con questa disumanità iniziò a porre delle domande agli italiani. Non si trattava di crimini di guerra isolati, ma generalizzati. Il nazismo, nel 1941, iniziava a gettare la maschera e a dichiarare la propria volontà di sterminio. Si pensi che, solo in Russia, gli ebrei assassinati furono 1,3 milioni: nessuna camera a gas, nessun trasporto su treno, solo gigantesche fosse comuni.

Anche in Germania il regime procedeva con il piano Aktion T4, che prevedeva la soppressione di disabili psichici e fisici e dei malati cronici e inguaribili. Ma contro l’onnipotente macchina nazista un uomo si eresse e parlò: era il vescovo cattolico Clemens August conte von Galen che, sostenuto e protetto da papa Pio XII, aveva già proclamato il diritto alla libertà della Chiesa in tre omelie del luglio 1941. Una quarta omelia, il 3 agosto 1941, andò direttamente contro il piano Aktion T4. Parole che ancora oggi sono attuali, tanto da far pensare (ironicamente e tragicamente) che forse la Seconda guerra mondiale è stata vinta dal nazismo: “Hai tu, o io, il diritto alla vita soltanto finché noi siamo produttivi, finché siamo ritenuti produttivi da altri? Se si ammette il principio, ora applicato, che l’uomo improduttivo possa essere ucciso, allora guai a tutti noi, quando saremo vecchi e decrepiti. Se si possono uccidere esseri improduttivi, allora guai agli invalidi, che nel processo produttivo hanno impegnato le loro forze, le loro ossa sane, le hanno sacrificate e perdute. Guai ai nostri soldati, che tornano in patria gravemente mutilati, invalidi. Nessuno è più sicuro della propria vita”.

Il gerarca nazista Martin Bormann avrebbe voluto impiccare il vescovo, poi chiamato “il leone di Münster”, ma Joseph Goebbels, più duttile, disse che von Galen era troppo popolare e che una sua eliminazione sarebbe stata controproducente. Il programma di eliminazione fu ufficialmente sospeso il 24 agosto per riprendere in modo del tutto segreto negli anni successivi.

Il 14 agosto 1941 si compiva anche la vicenda umana di san Massimiliano Kolbe, che aveva offerto la propria vita per salvare un padre di famiglia. Dopo due settimane senza cibo né acqua Kolbe veniva ucciso da un’iniezione di acido fenico: le sue ultime parole furono: “L’odio non serve a niente. Solo l’amore crea. Ave Maria”.

Come era possibile, tuttavia, per un combattente, immerso in questa colossale tragedia, continuare a restare uomo? Come era possibile conservare la pietas che è il patrimonio più prezioso di tutta la nostra civiltà occidentale? La figura del capitano di corvetta Salvatore Todaro può essere una risposta.

Nel luglio 1940 sommergibili italiani erano stati trasferiti nell’Atlantico a sostegno degli U-boote tedeschi. Inferiori come mezzi e addestramento i nostri sommergibilisti ottennero inizialmente scarsi successi, salvo poi progressivamente migliorare fino a raggiungere, nel 1942, il livello tedesco. Ma la storia che qui si racconta accadde nell’ottobre del 1940. Il comandante Todaro intercetta il piroscafo belga “Kabalo” e ingaggia un duello al cannone. Alla terza salva gli artiglieri del “Cappellini” danneggiano gravemente la nave. Todaro fa anche lanciare tre siluri, ma questi non esplodono. Per evitare uno spreco ulteriore affonda la nave a cannonate. Fin qui l’azione di guerra. Dall’affondamento si salvano 26 uomini d’equipaggio su una scialuppa, ma la loro sorte è segnata. Abbandonati in mezzo all’Atlantico sono condannati a morire. Todaro, valutati i rischi, prende a rimorchio la lancia di salvataggio e la traina verso le Azzorre e non solo. Quando il mare in burrasca distrugge l’imbarcazione, fa salire i naufraghi sul sommergibile e li deposita il 19 ottobre 1940 sull’isola di Santa Maria delle Azzorre.

Al momento dei saluti il secondo ufficiale del “Kabalo” si rivolge a Todaro: “Ho dimenticato di dirle che ho quattro bambini: se non vuole dirmi il suo nome per soddisfazione personale, accetti di dirmelo perché i miei bambini possano ricordarla nelle loro preghiere”. “Dica ai suoi bambini – fu la risposta – di ricordare nelle loro preghiere Salvatore Todaro”. Nel novembre 1940 giunge al ministero della Marina una lettera anonima da Lisbona, scritta in francese e rivolta a Todaro con il seguente testo: “Fortunato il paese che ha dei figli come voi. I nostri giornali danno il resoconto del vostro comportamento verso l’equipaggio di una nave che il dovere vi ha costretto a silurare. Esiste un eroismo barbaro ed un altro davanti al quale l’anima si mette in ginocchio: questo è il vostro. Siate benedetto per la vostra bontà che fa di voi un eroe non solo dell’Italia ma dell’umanità”.

In realtà il gesto di Todaro non fu molto apprezzato dai superiori. L’ammiraglio Parona, diretto superiore del capitano messinese, rimproverò i rischi corsi per salvare i naufraghi, pur riconoscendo le doti di aggressività e intraprendenza messe in mostra. L’ammiraglio Doenitz fu più secco: “Vi prego di ricordare ai vostri ufficiali – disse ai colleghi italiani – che questa è una guerra e non una crociata missionaria. Il signor Todaro è un bravo comandante, ma non può fare il don Chisciotte del mare”. Ma ben più famosa è la risposta di Todaro quando gli venne riferito l’appunto: “Gli altri non hanno, come me, duemila anni di civiltà sulle spalle”. Parole da scolpire nella pietra e nella testa di ognuno di noi, ricordando quale privilegio sia l’essere italiani.

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