Russia, USA, Israele: negli ultimi 20 anni si è verificata una mutazione genetica del potere mondiale. Solo la Santa Sede indica la strada della pace

C’è un’immagine, ormai ingiallita, che tutti possono reperire in rete. Si tratta di una foto scattata ad Hanoi nel 2006, durante un summit dell’APEC. Sono ritratti i tre leader delle grandi potenze mondiali: Bush, Hu Jintao, Putin. Tutti indossano il tradizionale abito vietnamita di seta, l’Ao dai: il colore è identico, azzurro.



Il vertice dell’APEC si svolse nella capitale vietnamita dal 18 al 19 novembre 2006. Anche in quel periodo guerre e turbolenze erano in corso. Il 5 novembre Saddam Hussein era stato condannato a morte per impiccagione, anziché per fucilazione come richiesto dal rais. Due anni prima, sempre a novembre, erano state usate bombe al fosforo e sostanze simili al napalm contro Fallujah.



L’agenda dei neoconservatori di Washington procedeva speditamente con l’idea di “esportare la democrazia”, anche manu militari. In Russia il 7 ottobre 2006 era stata uccisa Anna Politkovskaja, giornalista investigativa di grande coraggio. Altri giornalisti pochi anni prima avevano perso la vita per le loro inchieste: una lista non breve. Su cosa era successo in Cecenia aveva scritto un eloquente libro Milana Terloeva. Il titolo era significativo, Ho danzato sulle rovine (Corbaccio).

In Cina era presente un forte dissenso nei confronti del Partito da parte delle minoranze etniche, e una spina nel fianco era data dai Falun Gong, repressi con mezzi violenti. La memoria di piazza Tiananmen (un 1989 al contrario) non era sopita e in Occidente si guardava con interesse alle storie umane dei dissidenti.



Era evidente a tutti la forte differenza politica tra le grandi potenze nucleari e una certa reciproca diffidenza. Ognuna correva da sola, nel sostanziale e approssimativo rispetto delle linee rosse altrui. Tutte avevano una comune agenda: la lotta al terrorismo islamista. Gli europei erano accanto agli USA con qualche sfumatura diversa o con qualche tinta decisa, come nel caso della Francia.

Sempre nel 2006, ma fuori dalla foto, in scena emergeva Hamas in Medio Oriente, oltre alla stella del Qatar. Un piccolo Stato, l’emirato, che nonostante il non rispetto dei diritti umani avrebbe ottenuto, in futuro, persino i Mondiali di calcio.

Ma in quel 2006 per i boomers la notizia straordinaria era quella degli incontri tra veterani americani e vietnamiti. La generazione del boom economico ricordava bene il dramma dei Boat People, il Tribunale Russell per i diritti umani e l’incidente del Golfo del Tonchino.

Sembrava di vedere in atto, in quel fatidico anno, una stabilità internazionale problematica, faticosa e complessa, ma senza minacce reciproche dirette, anche se ancora con la mancanza dei diritti umani e della libertà religiosa in diverse parti del mondo, con i costi ben gravi e talvolta significativi per singoli e minoranze.

Se il nostro continente per Donald Rumsfeld, ideologo della guerra preventiva, era “la vecchia Europa”, c’era chi, come il filosofo francese Philippe Nemo in Che cos’è l’Occidente (2005), pensava a una Unione Occidentale, democratica, forte, ma sostanzialmente pacifica, guidata naturalmente dagli USA.

George Weigel, cattolico americano e biografo di Giovanni Paolo II, ne La cattedrale e il cubo (2005) faceva notare agli europei la necessità di non rinnegare le radici cristiane dell’Europa. Il cubo de l’Arche, nella sua freddezza simbolica, per Weigel era del tutto incapace di sostituire la forza di un popolo costruttore di cattedrali e di speranza. La sua proposta nelle relazioni internazionali si basava, infine, sulla chiarezza di un principio normativo, moralism without illusions.

Che dire di quel passato non lontano senza tsunami all’orizzonte?  E del 2025?

The time is out of joint. Viviamo un cambiamento epocale fatto di pre-potenze. Il diritto viene decostruito ogni giorno da mistificazioni e ingiustizie. Ci sentiamo impotenti come i nostri avi di fronte alla Prima guerra mondiale. Il 90 per cento contadini allora, e oggi al 90 per cento istruiti: tutti, comunque, sempre trascinati nel gorgo da chi decide sulla testa altrui. Lacrime per i popoli, giovani feriti gravemente e rischi per gli Stati. Tragedie immani per la comune umanità, sacrifici per avere polvere in più, desiderio di potenza segnato da spietatezza.

Sarebbe, ad ogni modo, interessante – digressione morale a parte – un lavoro storico comparato, portato avanti dagli studiosi di relazioni internazionali di diversi Paesi, per capire che cos’è successo fra le tre grandi potenze dal 2006 all’invasione dell’Ucraina. Quali sono state le diverse linee rosse progressivamente superate e perché si sono giocati azzardi morali. Che cosa ha portato, insomma, alla Rivoluzione geopolitica (Caracciolo) in corso e al caos attuale.

Anche per gli addetti ai lavori una ricerca del genere, ovviamente, è difficile. Manca la possibilità di studiare, infatti, la Secret History, genere che ha avuto inizio con Procopio di Cesarea e si basa su dati delle potenze, spesso, non conosciuti e su analisi geostrategiche fatte dai leaders con i loro collaboratori.

Se osserviamo, comunque, i fatti storici attuali, in presa diretta, notiamo nelle grandi potenze una sorta di salto, una mutazione genetica. La Russia è sempre stata una grande potenza militare che ha combattuto molte guerre. Molte sono state per la sua difesa, altre per la sua espansione. Tuttavia quella attuale si svolge in maniera molto cruenta, a causa di mezzi tecnologici molto più complessi e più devastanti.

Il presidente russo ha usato, in passato, un termine significativo del filosofo Lev Gumilev, cioè passionarnost, che significa sacrificio fino al limite estremo, per compiere un balzo evolutivo, un salto di livello superiore. Molti si chiedono, perciò, se la Russia sarà in grado di fare la pace o se procederà ancora in questa guerra in cui cresce il numero dei morti. Gli esperti cercano di capire, dunque, quando e se si fermerà, visti i recenti e rischiosi sviluppi.

A Pechino, in occasione della parata di Piazza Tiananmen: da s. Vladimir Putin, Xi Jinping, Kim Jong-un (Ansa)

I Paesi baltici e gli altri Paesi dell’Est che hanno conosciuto il comunismo non vogliono, certamente, tornare sotto il dominio altrui. Preferiscono la libertà alla sottomissione.

Tornando agli USA, l’idea del filosofo Nemo sembra perdente. Non esiste, attualmente, un’Unione Occidentale ben coesa e capace di proporre la democrazia e la pace, anche attraverso la fermezza dei valori. John Mearsheimer e Jeffrey Sachs, con visioni non sempre condivisibili, imputano a Washington una mancanza di vera leadership, in passato e anche oggi.

L’America di Trump, oggi, comunque sia, non vuole essere leader dell’Occidente, ma piuttosto esercitare la sua sovranità con dazi agli alleati e vantaggi economici in altri territori (Groenlandia, Canada, Ucraina). L’interesse politico diretto si concentra altrove: sul continente americano e in Medio Oriente, a sostegno di Israele. La scorsa settimana un sottomarino USA ha lanciato un missile Trident II con una scia visibile in Venezuela, inviando, così, un segnale a tutto l’estero vicino e anche alle altre potenze.

La superpotenza chiave e vitale per gli europei, dunque, nella maggioranza dei casi preferisce globalmente gli affari rispetto alla sua tradizionale postura e “difenderà gli europei a seconda delle circostanze” (Trump). Per la priorità data alla geoeconomia, non a caso, l’invito alla Russia a discutere di pace è stato in Alaska, territorio venduto nel 1867 dallo zar Alessandro II agli americani nel periodo del Grande Gioco.

Insomma, secondo Trump, tra potenze ci si può mettere d’accordo per interessi economici. Tuttavia, dopo l’incontro tra le due potenze, come ha notato giustamente Andrea Riccardi (Comunità di S. Egidio), i raid contro l’Ucraina sono aumentati, diventando ancora più cruenti. Resta, peraltro, un’incognita il continuo cambiamento di prospettiva rispetto al grave conflitto alle porte dell’Europa.

La difesa in Europa, nell’ottica dell’America First, sembra soggetta a una progressiva ridefinizione: sarà di fatto portata avanti dall’UE con armi americane. Tale mutamento produce rischi da non trascurare e scenari inediti. Il problema per l’Italia nel fianco Sud diventa complesso. La Libia nel 2011 è stata destabilizzata dall’incauto e assurdo intervento franco-inglese, sostenuto dai dem americani senza un piano per il dopo. I risultati ottenuti sono sotto gli occhi di tutti.

L’Italia si trova, ora, come vicini di casa la Turchia (in Tripolitania) e la Russia (in Cirenaica). La Turchia era stata cacciata via dalla guerra italo-libica del 1911-12. Ora il forte Paese della Nato con la guida dei Fratelli musulmani è rientrato in gioco, grazie alla caduta di Gheddafi. La Russia, invece, si va installando in Cirenaica da quando il cambio di regime in Siria ha indotto Mosca ad abbandonare la storica base di Tartus.

In precedenza la Russia non aveva mai avuto una presenza stabile con basi nel Mediterraneo. Anzi, uno tra i problemi per cui cadde il Regno di Napoli di Francesco II era proprio la vicinanza diplomatica tra Napoli e lo zar. Il Regno di Napoli, infatti, non mandò truppe nella guerra di Crimea (1853-1856), cosa registrata dall’Inghilterra e annotata sul suo “libro nero”.

Resta, peraltro, per quanto ci riguarda, sempre da monitorare, a Est, la situazione dell’inquieta Serbia rispetto al Kosovo, che in passato diede molti combattenti all’Isis.

Anche nel Medio Oriente possiamo rilevare una mutazione genetica, quella di Israele. Secondo Netanyahu, Israele non può più essere solo una sorta di Atene democratica, ma deve diventare una Super Sparta, cioè una potenza pronta a combattere non una guerra, ma una serie di guerre. Il sogno del Grande Israele però ha a che fare con gli altri attori regionali (Egitto, Turchia, Arabia, Siria e lo stesso Iran).

Si può fare guerra con tutti? E l’America continuerà nel suo sostegno incondizionato alla democrazia israeliana? Già ora le opinioni pubbliche occidentali iniziano a non sopportare ciò che accade a Gaza. Cosa succederà se la crudeltà sarà ancora più forte e protratta nel tempo?

Il fine filosofo ebreo francese Alain Finkielkraut, a tal proposito, considera un incubo “la trasformazione di Gaza in una riviera per turisti americani ricchi attraverso una pulizia etnica” (La Stampa, 22 settembre)

Di fronte al caos, alla sofferenza degli innocenti e al prevalere della morte ci si chiede, allora, se ci saranno tempi di pace possibile. Oppure se la volontà di potenza dei decisori politici porterà al peggio. Perderemo, insomma, la nostra dignità di uomini, tornando nelle caverne?

Oggi per restare umani, dunque, bisogna tenere fermi gli argini della comune civiltà: diritto internazionale, diritto umanitario, diritti umani. Si tratta di ricordare ciò che le menti più acute dei popoli hanno concepito per il bene comune.

E non dimenticare le parole di Leone XIV: “Questa è la pace di Cristo risorto. Una pace disarmata e una pace disarmante, umile e perseverante. Proviene da Dio. Dio che ci ama tutti incondizionatamente”. Ecco, perché l’azione diplomatica della Santa Sede – di fronte a ciò che sembra lontanissimo e impossibile – è sempre più preziosa. Come ha sottolineato, recentemente, il presidente tedesco Frank-Walter Steinmeier.

Non è utopia, è la strada.

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