Donald Trump è arrivato all’appuntamento del giuramento come l’uomo assolutamente nuovo, nato fuori del recinto di Washington, del potere costituito, miracolato perché sopravvissuto agli attacchi dei nemici e scampato letteralmente alla morte. Ecco che l’eccezionalismo americano diventa una qualità non solo del Paese ma dell’uomo che gli americani hanno eletto come presidente. Chi meglio di un uomo eccezionale, già trasformato in mito, può guidare un Paese eccezionale in tempi straordinari?
Tempi imprevedibili e straordinari richiedono uomini imprevedibili. Far tornare l’America grande, scommettere su di una nuova età dell’oro, suonano come slogan roboanti. Ma non esiste politica senza sogno. Gli Stati Uniti – secondo gli elettori USA – non hanno bisogno dei pallidi, tristi, noiosi, novelli puritani estremisti e intolleranti democratici con le loro politiche dirigiste imbastite con una nuova eticità laica fatta di ambiente, politiche gender, politicamente corretto che copre una società – roghi di Los Angeles docent – dalle infrastrutture sfasciate, piena di immigrati clandestini non integrati, che si ammanta di buoni propositi alla luce dell’espansione dei diritti senza limite dell’individuo a spese della fine delle comunità locali e delle loro identità, comprese le vecchia cara industria petrolifera.
Trump ribalta completamente le politiche, il discorso, la retorica dei democratici. Ogni sua mossa porta il segno opposto. Se Biden era l’usato sicuro, Telampù, come chiamano il nuovo presidente americano i cinesi, è l’esatto contrario, non solo imprevedibile, ma ogni sua azione porta il marchio di un’identità non più cosmopolita, liberal, uguale a Parigi come a Berlino come a New York. Tutto riporta agli Stati Uniti. E quindi basta con le follie woke della decostruzione dei sessi! Stop ai programmi DEI (Diversity, Equity and Inclusion, tra le grandi aziende che hanno abolito gli impegni verso il mondo LGBTQ+, Amazon, McDonald, Walmart, Toyota, Harley Davidson). Basta con il green, con l’ecologia dei ricchi! E chiarezza con gli alleati internazionali pavidi, tirchi e ricchi sulla pelle del popolo americano!
Così Trump offre agli americani un sogno costruito da frammenti diversi sostenendolo con vari puntelli. Il futuro, la visione positiva, la bandiera a stelle strisce su Marte. Musk, trivelle e petrolio, via dagli accordi internazionali, rilancio dell’industria classica americana, petrolio e auto a buon prezzo come un tempo, non solo quelle fighette e care elettriche su cui tanto puntano i cinesi. Autonomia energetica, rilancio dell’economia nazionale e del mercato interno, tre obiettivi in un solo colpo. Non è poco. Trump sembra aver capito che il tema della coesione vada costruito su più livelli, a maggior ragione in una società giovane e multietnica, fatta di immigrati come quella americana, e tanto più in una società mediatica postmoderna, cioè fortemente destrutturata e precaria. Per questo, la coesione sociale deve essere costruita sui binari di quella economica e di quella culturale, eliminando alla radice le minacce che la minano e la disgregano: immigrazione clandestina, gangs cioè criminalità organizzata, fentanyl. Trump ha usato parole dure e preso misure durissime. Ma ha davanti, non dimentichiamolo, numeri impressionanti. Nel 2022 i morti da oppioidi sono stati negli USA più di 22mila, ma il dato più impressionante è la crescita esponenziale delle morti per overdose a causa dei miscugli di fentanyl e oppioidi, secondo la rivista Addict più di 50 volte dal 2010, passando dallo 0,6% di decessi (235) nel 2010 al 32,3% (34.429) nel 2021.
Anche per l’immigrazione clandestina i numeri fanno paura. Ad oggi, gli immigrati clandestini che vivono negli USA sono più di 10 milioni, il 3,2% dell’intera popolazione! Ma a differenza del fentanyl l’immigrazione è un problema complesso da trattare, perché è un insieme dalle molte facce. L’unica cosa, anche qui sicura, è la realtà. L’immigrazione deve essere gestita, la teorizzazione e la pratica delle porte aperte come hanno fatto alcuni democratici porta poi a risultati opposti. Che senso ha dire che il confine con il Messico deve essere aperto o che la polizia di frontiera deve essere addirittura sciolta? O fare come alcune municipalità democratiche, come appunto Chicago e New York, che hanno accolto gli immigrati irregolari provenienti dal Messico per poi emarginarli e ammassarli in semi-campi di prigionia?
Stesso discorso per le gang spesso collegate al narcotraffico che spadroneggiano in alcune zone delle metropoli americane. Il Dipartimento della Giustizia USA ha dichiarato che sul territorio agiscono circa 30mila bande che impiegano un totale di 800mila membri e negli ultimi anni il fenomeno è diventato ancora più violento.
La faccia verso l’esterno della politica trumpiana si basa su due elementi altrettanto forti. Protezionismo e isolazionismo. Anche qui la retorica è clamorosa. Rioccupazione di Panama, acquisizione della Groenlandia, Golfo del Messico che diventa un lago americano, controllo degli stretti… E di nuovo l’accusa al novello imperialista spaziale digitale! Domanda retorica: erano meglio gli imperialisti esportatori di guerra ma educati, democratici e liberal?
Realtà. Trump ha bisogno di pace, di non impegnarsi all’estero in guerre dai costi esorbitanti, senza senso perché senza risultati utili, per una serie di motivi. Il primo, deve portare avanti il suo ambizioso programma all’interno. Secondo, le sue forze armate devono essere pronte a fronteggiare un’eventuale sfida globale (e sono indietro nell’industria degli approvvigionamenti, munizioni in testa, nella sfida sui mari e mancano di uomini). Terzo, vuole chiudere la partita in Ucraina e riportare o per lo meno riavvicinare la Russia, cercando di limitare l’influenza cinese. Quarto, lo stesso si dica per il conflitto israelo-palestinese, dove deve giocare una partita complessa tra Israele, palestinesi, Turchia, Arabia e minaccia nucleare iraniana, cercando di rilanciare i suoi Accordi di Abramo. In ultimo, non vuole essere ricordato come il presidente della guerra ma della pace e del rilancio del sogno americano.
Certo è che dentro la retorica isolazionista ci sta incartata la riedizione della dottrina Monroe. La supremazia sui mari e nello spazio – predominio eroso da Pechino – non può funzionare se gli Stati Uniti perdono la loro area di sicurezza che oggi come nel 1823 comprende le Americhe, dal Polo Nord al Polo Sud. Tanto più adesso che, con il riscaldamento dei mari, si sono aperte nuove rotte marittime e sono agibili le enormi risorse minerarie di quelle terre diventate nuovo motivo di scontro tra le superpotenze.
In conclusione, davanti ad un mondo sempre più caotico, senza ordine, e cosa più grave, che sembra non pronto a passare razionalmente ad un nuovo multilateralismo, davanti a nuove potenze in ascesa e aggressive o sul piano militare o su quello economico, Trump risponde con una ricetta nuova. Per questo è un presidente revisionista. Rinserra le fila della superpotenza, cerca di limitare il rischio di overstretching, della fine degli imperi, estenuati e distratti dai troppi impegni, fine disegnata dallo storico Paul Kennedy.
Trump, costretto a muoversi tra i binari stretti della contraddizione costitutiva degli Stati Uniti tra Stato nazionale suo malgrado e impero universale per necessità storica, prova a salvare l’egemonia riducendo la proiezione globale a vantaggio di una rafforzata sovranità nazionale allargata. In questo, la sua logica è speculare a quella di Putin, entrambe tese a definire sfere d’influenza continentali neoimperialiste.
Ci riuscirà? Gli avversari e contendenti glielo permetteranno? Sul fronte interno, le sue politiche saranno in grado di impedire la disgregazione sociale in corso negli USA o andranno ad alimentare la strisciante guerra civile? E in politica estera, sarà in grado l’unilateralismo spinto a non buttare qualche alleato nelle braccia dei nemici e degli avversari? Sarà in grado di bilanciare le diverse esigenze? E la fortuna gli sarà avversa o favorevole? Il primo vero test delle sue capacità e della sua politica estera è l’Ucraina, dove deve costruire una pace con un avversario non certo facile come Putin e nemmeno svendere gli alleati, pena la credibilità, cioè la fiducia, cioè la potenza.
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