L’UE è divisa sulla guerra di Israele: von der Leyen da una parte, Kallas dall’altra. E il G7 ha sancito la sua definitiva irrilevanza
Nel turbine degli incontri internazionali che si moltiplicano ad ogni livello, la riunione periodica del G7 (quello che per Trump è “l’8-1”, rimpiangendo apertamente l’assenza di Mosca) è il momento in cui da sempre si fa il punto sulla realtà internazionale.
Passando dalla Puglia alle montagne del Canada il meeting di quest’anno, in una realtà profondamente diversa e sicuramente più drammatica, non verrà però ricordato per qualche decisione fondamentale, ma piuttosto per un sostanziale fallimento.
A certificarlo l’anticipata partenza di Trump, che ha piantato in asso i colleghi, sostenendo che tanto “non contavano niente”, e la scomparsa – o almeno il crollo di immagine – di quelli che a Calgary sono restati, ovvero gli ex presunti “grandi” della scena europea.
Forse l’unica frase che verrà ricordata del vertice è quella del nuovo cancelliere tedesco Friedrich Merz quando ha ammesso “Israele sta facendo in Iran il lavoro sporco per conto di tutti noi”, peraltro in totale contrasto – stavolta – con le concomitanti dichiarazioni di Kaja Kallas al parlamento europeo.
Questa crisi di immagine (ma soprattutto di sostanza) da parte dell’Europa avviene per diversi fattori, uno dei quali è – parafrasando Kissinger – che chiamando al telefono l’Europa non risponde mai nessuno, in quanto o i diversi partner hanno opinioni diverse o sono tutti presi a darsi gomitate a vicenda, condizionati dai propri interessi nazionali, tanto che non riescono mai ad esprimere posizioni univoche o coraggiose, ma solo frasi un po’ ambigue o di principio, che però alla fine non contano niente.
Si ripropone quindi un punto fondamentale: l’Europa (allargata a tutti, non solo ai big del G7) può o meno deliberare a maggioranza o deve farlo sempre all’unanimità? I trattati dell’Unione finora hanno salvaguardato il principio del voto all’unanimità in Consiglio europeo, con il rischio di un sostanziale immobilismo generale su molte questioni; al tempo stesso, il principio dell’unanimità si rivela importante oggi più di ieri, perché costituisce di fatto una garanzia rispetto alle fughe in avanti di chi antepone i propri calcoli o i propri disegni egemonici (in Europa ci sono eccome: chiedere a Parigi e a Berlino). Altro che visione comunitaria.
Forse, per contare di più, la soluzione sarebbe di fissare tematiche o ambiti in cui l’unanimità sia necessaria, ma non su altrettanti ambiti o tematiche, fissando limiti attentamente calibrati.
Perché un conto sono appunto le frasi fatte, le dichiarazioni scontate. Altra cosa sono invece le scelte sul campo, come decidere se mandare truppe in Ucraina o in Iran, fronteggiare o meno Israele, quali posizione tenere con il mondo arabo.
Noi italiani siamo fortunati, visto che l’Alto rappresentante europeo nel Golfo si chiama addirittura Luigi Di Maio. Stando fuori dalle sciocchezze, è comunque anche questo un esempio di completa, concreta nullità europea.
Ma vi immaginate se, passando al campo militare, oggi Germania, Polonia e Paesi baltici, con il supporto della Francia, potessero creare una “maggioranza” di blocco capace di determinare le dotazioni e l’impiego di un esercito europeo?
In questi anni l’Europa ha fatto notevoli passi indietro perché non è riuscita ad adeguarsi ai nuovi schemi mondiali. Facile stare con l’Occidente quando i partner erano sostanzialmente due e la seconda guerra mondiale aveva creato a Yalta una spaccatura verticale tra due blocchi. E quando invece, come oggi, i problemi si chiamano approvvigionamento energetico, difesa, immigrazione, politiche green?
Se ci pensiamo tutte queste quattro tematiche non erano in alcun modo delle priorità nell’agenda europea di quindici anni fa, quando si firmò il Trattato di Lisbona, ma su queste che adesso occorre pronunciarsi.
L’Unione Europea dovrebbe uscire dal limbo, ma non ce ne sono le condizioni, anche perché non c’è in Europa un vertice eletto, ma solo uno nominato in secondo grado, con una Commissione che pretende pure di imporre le sue decisioni come se l’europarlamento non ci fosse. Il riarmo e le politiche green sono lì a dimostrarlo. Un assetto istituzionale che condiziona gravemente il futuro di tutti noi.
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