Il governo non è stato capace di gestire al meglio il flashmob della Flotilla. E lo ha subito, piazze comprese. Ecco gli errori commessi. Da non ripetere
C’è di che rimanere sconcertati di fronte all’ipocrisia collettiva di matrice ideologica emersa in occasione del tentativo della prima Flotilla – Israele ne ha già bloccata una seconda in arrivo – di avvicinarsi alla spiaggia di Gaza. In tutti i punti di vista, se non si è schierati a prescindere, si possono osservare allo stesso tempo la compresenza di torti e ragioni.
Tecnicamente si è trattato di un flashmob che ha ottenuto il suo scopo: attirare l’attenzione su un tema drammatico scuotendo le coscienze. Nato nell’ambiente del teatro, il flashmob raggiunge il suo obbiettivo grazie ad ingredienti capaci di creare spettacolo – o possibilmente scandalo – affinché il tema sollevato colpisca emotivamente il maggior numero di persone.
In questo senso, l’evento della Flotilla ha svolto il suo compito.
Per troppo tempo molti governi – e segnatamente quello italiano – hanno ignorato la gravità del comportamento di Israele nei confronti del popolo palestinese: 35 governi lo hanno definito genocidio. Mentre altri 157 hanno poi aderito alla proposta di riconoscere lo Stato della Palestina, anche se non pare essere un obiettivo facilmente raggiungibile.
Secondo gli organizzatori della Flotilla, l’evento aveva lo scopo di sollevare la protesta del popolo dei Paesi troppo esitanti perché intimiditi dalla prepotenza di Netanyahu. Rimproverando loro di non avere imposto a Israele reali azioni sanzionatorie a fronte delle 19 inflitte fino ad ora alla Russia, il cui esercito, in Ucraina – a differenza di quello israeliano – cerca di limitare al massimo possibile le vittime civili.
Nel giustificare la ratio dell’operazione è stata detta la prima bugia: l’iniziativa è stata promossa come una spedizione umanitaria, con l’obiettivo di portare derrate alimentari ai gazawi stremati da bombardamenti e carestia. Chiunque sia mai salito su una barca da diporto ha capito subito che su quei natanti, con equipaggi al completo, di derrate supplementari ce ne potevano stare ben poche. Ma tant’è, i naviganti sono stati presentati al mondo come eroici soccorritori.
Ben sapendo che l’esercito israeliano avrebbe sequestrato barche ed equipaggi, il governo italiano ha fatto il possibile per evitare un epilogo pericoloso e anche imbarazzante dal punto di vista diplomatico, suggerendo di consegnare le derrate al Patriarcato di Gerusalemme invertendo poi la rotta. Proposta rifiutata per i motivi di cui sopra. E in quel momento gli stessi organizzatori hanno ammesso che il loro obiettivo non era portare aiuti, ma ottenere un risultato politico (sfidando il governo israeliano e cercando l’incidente).
Al momento in cui i soldati israeliani hanno abbordato le barche, i sindacati hanno immediatamente dichiarato lo sciopero generale per il giorno successivo. Un’evidente strumentalizzazione, in quanto sarebbe stato più che sufficiente invitare la popolazione a partecipare alla manifestazione per Gaza già fissata per il 4 ottobre, rendendola ancora più partecipata. Ma per i leader sindacali era troppo ghiotta l’occasione di riacquistare una centralità perduta da tempo.
Immediata la reazione del governo, con i vertici all’attacco dei sindacati ritenuti rei di aver violato le regole del diritto di sciopero per l’assenza di preavviso. Argomenti apparsi come sottigliezze all’opinione pubblica, molto più colpita ed esacerbata dal massacro quotidiano di civili messi in fuga persino dalle loro povere tende. Ancora un errore di chi, pur avendo delle ragioni, ha sbagliato nell’usare toni aggressivi del tutto fuori luogo dato il delicato contesto. Del tutto imbarazzante dal punto di vista giuridico un’uscita del ministro degli Esteri Tajani: “In certe occasioni il diritto internazionale conta fino ad un certo punto”. Semplicemente incommentabile.
Hanno perseverato nell’errore anche la presidente Meloni, i parlamentari del centrodestra e i loro giornali di riferimento: attaccare sindacati e partecipanti allo sciopero come dei fannulloni che amano approfittare di un weekend lungo causando danni al Paese non ha fatto altro che esacerbare ulteriormente gli animi. Ottenendo un risultato del tutto controproducente, perché pur avendo oggettive ragioni, hanno consegnato totalmente nelle mani di una sinistra fino a ieri alquanto in difficoltà l’appalto dell’emozione collettiva nei confronti di un sempre più cruento genocidio (o sterminio di civili che dir si voglia).
Nei testi di psicologia delle folle si spiega che a nulla servono i tentativi di riduzione cognitiva – anche se tramite argomenti razionali – di un evento che colpisce fortemente le coscienze.
A fornire poi benzina ad alcune penne infuocate sono stati i piccoli gruppi dei soliti facinorosi mascherati che sono riusciti a creare incidenti, distruggere vetrine, bloccare il traffico, ferire poliziotti. Stigmatizzarli come meritano non basta a distogliere lo sdegno popolare dal dramma in questione: troppo grande il divario tra qualche vetrina spaccata e un po’ di cassonetti dati alle fiamme e molte decine di migliaia di civili uccisi, bombardati, bruciati vivi, menomati per sempre, e i milioni costretti a scappare non si sa dove senza cibo, acqua e minimi servizi essenziali.
A leggere certi editoriali, da un lato si intravvede in filigrana l’inchino ad una potenza militare e finanziaria unica al mondo che secondo molti analisti condiziona da sempre i governi d’America. E poiché l’Italia deve ad essa ubbidienza, basta ricordare la proprietà transitiva per capire qual è l’aria che tira da noi e in certe redazioni.
Dall’altro lato si vede una sinistra senza più ideali e allo sbando da tempo approfittare dell’occasione per intestarsi finalmente una battaglia dalla potente e indiscutibile forza evocativa.
È di fronte a questa situazione che chi ci governa dovrebbe prestare più attenzione a non cadere nel tranello delle troppo facili schermaglie dialettiche. Se persino la Gran Bretagna di Starmer – da sempre stretta sodale di Israele – ha riconosciuto il diritto ad esistere dello Stato di Palestina, un motivo ci sarà pure.
Forse occorre studiare – come faceva Andreotti – il modo di ubbidire allo Zio Sam dialogando contemporaneamente con arabi e palestinesi e mantenendo intatta la propria reputazione.
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