La divisione può essere una soluzione temporanea, ma non crea pace duratura. Serve un nuovo modello di convivenza, oltre i confini
Divide et impera, dicevano gli antichi Romani. E nel campo dell'”imperare” erano dei veri professionisti.
Oggi, però, la divisione, lo stabilire dei confini, anche se storicamente innaturali, sembra essere il metodo per favorire la pace. Mah! Certo, in certe situazioni di conflitto, come soluzione interlocutoria, provvisoria, può anche andar bene. Anzi, è forse l’unica soluzione.
In prospettiva, però, una pace fondata sulla divisione non sembra proprio la cosa migliore. Fu la situazione imposta alle due Germanie e alle due Coree. Nel primo caso, grazie a Dio, i tedeschi, alla fine, l’hanno saputa superare. Quanto ai coreani, restano tuttora divisi con una gran voglia di conquistare l’altra parte. In Ucraina uno dei problemi più delicati è una possibile ridefinizione dei confini, all’interno dei quali, però, resterebbero a convivere in una stessa città i sostenitori delle due parti in lotta. Pensate poi come la prospettiva di una ricostruzione, con relativi finanziamenti, possa moltiplicare anche i conflitti di interesse.
Per la Palestina non sembra esserci altra soluzione che quella di due popoli e due Stati. Soprattutto per riconoscere ai palestinesi il diritto di non essere governati dagli israeliani. Vi immaginate, però, una volta stabiliti i confini fra i due Stati, come non sarebbe facile per un ebreo vivere in una città palestinese dove ha sempre abitato e costruito la sua vita, e la stessa cosa viceversa per un palestinese, specialmente se viene da Gaza.
Insomma, pur senza cadere nell’utopia, bisogna che qualcuno cominci a immaginare un sistema dove ognuno possa sentirsi libero in casa sua, quella in cui decide di poter vivere.
A questo proposito mi viene in mente l’esempio dei popoli della steppa dell’Asia centrale, tradizionalmente nomadi. Si sentivano ospiti della terra che dava nutrimento alle loro mandrie e, quindi, a loro stessi. Per queste tribù i fiumi, di solito, non erano confini, ma il luogo dove incontrarsi, scambiarsi le loro esperienze e informazioni, organizzare matrimoni che sancivano alleanze e impedivano di sposarsi solo all’interno di uno stesso clan.
Un antico proverbio kazako dice che “Il confine della mia patria è dove arriva il mio cavallo”. Lì arrivavano per cercare nuovi pascoli e non, almeno normalmente, per occupare nuovi territori. Certo, anche fra le tribù potevano esserci inevitabili conflitti, ma fu solo dopo che, con l’influenza dei cinesi e dei persiani, nacquero delle città, e si cominciò a pensare di dominare un territorio.
Non sto certo immaginando un mondo attuale che si dia al nomadismo, come forse pensarono di fare gli hippies del tempo della mia giovinezza, molti dei quali ormai si sono “convertiti” in brillanti uomini d’affari.
Però, scusate, una soluzione che, riguardo al destino dell’Ucraina, pensi a zone comuni, garantite per ora da forze internazionali, e un trattato per cui l’Ucraina entri simultaneamente nella NATO e nel CSTO, proprio mi piacerebbe che, come del resto dicono i loro statuti, fosse possibile.
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