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Home » Esteri » Usa » UCRAINA/ Rubio, Kellogg, Witkoff: nessuno smuove Putin sui territori, serve un incontro con Trump

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UCRAINA/ Rubio, Kellogg, Witkoff: nessuno smuove Putin sui territori, serve un incontro con Trump

Int. Giorgio Battisti
Pubblicato 16 Aprile 2025 - Aggiornato alle ore 06:05
Vladimir Putin al Manege Central Exhibition Hall di Mosca (Fonte: Ansa)

Vladimir Putin al Manege Central Exhibition Hall di Mosca (Fonte: Ansa)

Sull'Ucraina Rubio e Kellogg sembrano in disaccordo con Witkoff, troppo debole con Putin. Ma le decisioni alla fine le prenderà Trump

Nell’amministrazione americana convivono due posizioni: una che fa capo al segretario di Stato Marco Rubio e all’inviato speciale per l’Ucraina Keith Kellogg, più guardinga nei confronti di Putin; l’altra, che fa riferimento all’altro inviato speciale, Steve Witkoff, che in un’intervista a Fox ha definito il capo del Cremlino uomo pronto alla pace. Ma alla fine chi deciderà sarà Trump.


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L’unico modo per sbloccare il negoziato per l’Ucraina, spiega Giorgio Battisti, generale già comandante del Corpo d’armata di reazione rapida (NRDC-ITA) della NATO in Italia e capo di stato maggiore della missione ISAF in Afghanistan, sarà proprio un incontro diretto Trump-Putin, in vista del quale il presidente americano si è già lavato le mani di qualsiasi colpa nei confronti della guerra, attribuendone le responsabilità a Zelensky, Biden e Putin.


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Sgravato di ogni peso, potrebbe finalmente trovare un’intesa, senza dover rispondere di eventuali concessioni fatte a Mosca. Intanto gli USA si sono rifiutati di firmare un documento del G7 di condanna dell’attacco a Sumy.

I giornali ucraini, in particolare l’Ukrainska Pravda, sottolineano che ci sarebbe una spaccatura nell’amministrazione Trump: da una parte Rubio e Kellogg, dall’altra Witkoff. Ci sono effettivamente posizioni diverse nello staff trumpiano?

Da quando c’è l’amministrazione Trump, lo si vede anche in altri settori, non solo quello militare, si nota scarso coordinamento, frutto anche del fatto che il presidente tende a prendere iniziative estemporanee. Così è stato anche per i dazi, annunciati e poi sospesi, con il rischio di spiazzare i suoi collaboratori.


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Come si spiegano queste divergenze interne?

I mediatori tipo Witkoff non provengono dal mondo diplomatico, né da quello politico; quindi hanno un modo di porsi che non è quello degli ambasciatori o degli incaricati d’affari. Provengono prevalentemente dal mondo economico e non sono perfettamente a conoscenza delle dinamiche proprie dei rapporti internazionali. Danno anche l’impressione, a volte, di parlare senza essere adeguatamente informati.

Lo scollamento nell’amministrazione, quindi, dipende dall’assenza di esperienza in diplomazia da parte dei collaboratori di Trump?

Trump cambia posizioni senza riferirne prontamente ai suoi collaboratori, che, a loro volta, non essendo diplomatici di carriera, si lasciano scappare affermazioni criticabili. Non penso, comunque, che ci sia un vero contrasto nell’amministrazione: se così fosse, Trump sarebbe già intervenuto. Il presidente infatti è facile al licenziamento: dopo il viaggio di Vance in Groenlandia, è stata silurata la comandante della base USA Susannah Meyers perché aveva criticato il vicepresidente americano.

I rumors, però, dicono che Rubio e Kellogg chiedono a Trump di non assecondare Putin e di frenarlo anche sulle richieste territoriali, mentre Witkoff ritiene che le sue intenzioni di pace siano sincere. Come si arriva a una sintesi di queste due posizioni?

Anche Trump ha sempre detto che Putin vuole la pace, salvo poi ricredersi, dichiarando che ci sono difficoltà per arrivare in fondo alla trattativa. Anzi, si è reso conto che il presidente russo non indietreggia di un centimetro. Lo stesso Witkoff, in un’intervista rilasciata a Fox, ha detto che il vero tema del negoziato sono i cinque territori che i russi rivendicano. Ci sono due posizioni diverse, che servono a Trump per far vedere che la sua amministrazione non è completamente allineata sulle posizioni di Putin. Witkoff, prima di incontrare Putin, ha fatto diverse ore di anticamera e poi è stato criticato perché, quando lo ha salutato, ha messo la mano sul cuore.

Come si spiega questo atteggiamento?

Penso che Putin, quando parla con i suoi interlocutori americani, faccia pesare il suo carisma; li influenza, suscitando in loro un atteggiamento meno rigido nei suoi confronti. Qui potrebbe contare, appunto, la carenza di esperienza da parte dei negoziatori: un diplomatico di professione mantiene sempre il suo aplomb, non si sbilancia. Invece, qui ci sono ottimi economisti, ottimi uomini d’affari, portati a un approccio diverso.

Ma queste differenti posizioni nell’amministrazione USA rischiano di rallentare un po’ le trattative?

Non credo. Alla fine deciderà Trump. Anzi, decideranno Trump e Putin. Saranno i due presidenti a confrontarsi, anche se non so quando: in entrambi gli staff, l’accordo di pace viene dato come ancora molto lontano. Intanto Trump, dopo l’attacco a Sumy, si è già smarcato, sostenendo che la guerra non è stata certo colpa sua, ma di Zelensky, Biden e Putin. Qualunque cosa succeda, scarica sugli altri le responsabilità, sentendosi libero di intervenire perché non si attribuisce nessuna colpa.

Il G7 non avrebbe approvato un documento di condanna dell’attacco russo a Sumy perché gli americani si sono rifiutati di firmarlo. È un segnale di debolezza nei confronti di Putin?

Ritengo che Trump abbia una certa simpatia nei confronti di Putin, lo giudica sempre con una certa benevolenza. Anche nel caso di Sumy ha dichiarato che si è trattato di un attacco orribile, aggiungendo, però, che i russi gli avevano detto che è stato un errore.

Ma le trattative, nella sostanza, a che punto sono? In una fase di stallo? Che cosa può cambiare la situazione?

Putin non farà marcia indietro e, se anche da parte americana dichiarano che si è vicini a realizzare qualcosa di grande, bisogna ancora capire cosa intendano veramente con questo. Può darsi che si intervenga su Zelensky e lo si forzi a cedere. La Russia, dopo più di tre anni di guerra, dopo aver perso qualche centinaio di migliaia di soldati e con un’economia che comunque ha dovuto affrontare una situazione difficile, non può accettare di cedere sui cinque territori che rivendica. A meno che accetti che alcuni di questi possano godere di una forte autonomia, come prevedevano gli accordi di Minsk, rimanendo formalmente ucraini ma, di fatto, in mano ai russi.

Trump e Putin non possono essere cambiati. L’unica variante è Zelensky: alla fine si cercherà di cambiare lui?

Penso che lo spingeranno ad accettare un accordo, anche se dovranno concedergli qualcosa per non fargli perdere completamente la sua credibilità.

Putin è veramente così desideroso di pace come sostiene Witkoff?

Aspira alla pace, ma alle sue condizioni. Non può rimangiarsi le sue dichiarazioni, rischierebbe di essere deposto, se non peggio, da parte dei suoi diretti sostenitori in patria. In realtà, siamo in una fase di stallo anche sul campo di battaglia, dove continua la pressione russa, ma si manifesta con avanzate di pochi chilometri al giorno. Quanto al negoziato, vedo Trump ancora fiducioso nei confronti di Putin, ma bisognerà capire se otterrà una minima apertura dal presidente russo; altrimenti ha già annunciato che imporrà ulteriori sanzioni a Mosca.

Secondo alcuni analisti, l’esercito russo sta ancora pensando a un’offensiva in grande stile. Ci sono segnali che confermano questa possibilità?

I russi chiamano alle armi militari di leva due volte all’anno, per una forza di circa 150mila uomini. Ma sul fronte ora non ci sono militari di leva, ma volontari. Se si chiamano alle armi 150mila persone, devono essere addestrate almeno per 5-6 mesi. L’offensiva, secondo me, è un altro modo di Zelensky di fare pressione sugli occidentali.

(Paolo Rossetti)

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Tags: Donald TrumpVladimir PutinVolodymyr Zelensky

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