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Home » Esteri » Medio Oriente » UE E PALESTINA/ “Israele è una democrazia etnica, ma Bruxelles non se n’è ancora accorta”

  • Medio Oriente
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UE E PALESTINA/ “Israele è una democrazia etnica, ma Bruxelles non se n’è ancora accorta”

Int. Ugo Tramballi
Pubblicato 13 Settembre 2025
Un padre con in suoi figli nella Stirscia di Gaza dopo un bombardamento israeliano, 25 dicembre 2023 (Ansa)

Un padre con in suoi figli nella Stirscia di Gaza dopo un bombardamento israeliano, 25 dicembre 2023 (Ansa)

Israele è uno Stato che viola gravemente i diritti umani. Se l'UE vuole essere ancora credibile, deve trattarlo alla stregua della Russia

A Gaza si contano decine di migliaia di morti civili: oltre 60mila uomini, donne, bambini secondo fonti palestinesi e internazionali; particolari allarmanti emergono anche su chi muore cercando aiuti o vivendo sotto assedio. In Europa, il Parlamento ha appena approvato una risoluzione che invita gli Stati membri al riconoscimento dello Stato palestinese, prefigurando anche sanzioni contro ministri israeliani estremisti, coloni violenti e sospensione parziale dell’accordo bilaterale Ue-Israele.


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Ugo Tramballi, editorialista de Il Sole 24 Ore e consigliere scientifico dell’ISPI, analizza le contraddizioni dell’Europa, l’isolamento crescente di Israele, le armi alternative possibili: perché il riconoscimento formale non basta, e perché la situazione umanitaria ha superato ogni soglia di sopportazione.

Il parlamento europeo ha approvato con 305 sì, 151 no, 122 astensioni una risoluzione che chiede il riconoscimento della Palestina e misure contro Israele. Che valore reale ha questo voto, secondo lei?


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Non basta il riconoscimento, è un atto formale che ha un’importanza, certo, ma relativa. L’Europa chiama a gran voce il riconoscimento dello Stato della Palestina, ma quando si arriva al dunque – come Germania e Italia fanno capire – non c’è la volontà concreta di compierlo oggi. E se la Germania e l’Italia, paesi importanti, non lo sono, significa che l’Unione è divisa anche nel minimo.

Cosa intende dire con “non basta”? Quale sarebbe il passo concreto che serve davvero?

Quello che serve davvero sono le sanzioni e il boicottaggio, dalla cultura allo sport, dall’economia alla difesa, come è stato fatto contro la Russia. Se l’Europa fermasse davvero gli scambi con i ministri estremisti del governo di Netanyahu, impedisse agli estremisti di entrare sul suo suolo, imponesse sanzioni vere, allora potremmo parlare. Ma finora siamo rimasti alle parole.


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Lei ha parlato di “democrazia etnica” per Israele, un Paese dove circa il 20% della popolazione totale, quella araba, è trattata come cittadini di serie B. È una affermazione forte, su che basi la sostiene?

È forte, ma è anche realistica, e lo dico da persona che vive a Gerusalemme: Israele è una democrazia, ma una democrazia che privilegia la popolazione ebraica nei diritti politici e civili. C’è una discriminazione sistemica verso gli arabi palestinesi cittadini: nell’accesso ai servizi, nelle leggi sulla terra, nell’iter burocratico, nel riconoscimento di diritti. Quando la metà della popolazione vive con restrizioni concrete dei propri diritti, non si può parlare solo di conflitto, ma di ingiustizia strutturale.

In che modo oggi la guerra sta aggravando la situazione dei palestinesi?

Non è più solo guerra: sono le condizioni di vita che vengono distrutte. Bombardamenti costanti, interruzione degli aiuti, blocco dei valichi, mancanza di accesso a cibo e medicine. Quando organizzazioni come l’ONU denunciano carestia nel nord di Gaza e decine di vittime civili che muoiono semplicemente cercando rifornimenti, si è superata qualsiasi soglia.

Secondo lei l’Europa avrà il coraggio di prendere le misure che ha citato, o rimarrà ancorata alle sue divisioni interne?

Forze israeliane durante le operazioni a Gaza (Ansa)

L’Europa è ciò che noi vogliamo che sia. Oggi è un bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto. Storia comune, ricchezza, mercato forte: questi fattori sembravano bastare per fare una superpotenza morale. Invece no: i nazionalismi sono tornati, le opinioni pubbliche sono divise, e ci sono governi che non hanno intenzione di fare nulla.

Su queste pagine è stata fatta l’ipotesi della sospensione dell’Accordo di associazione tra UE e Israele. È una strada realistica?

È una strada possibile, se realmente si accertano le infrazioni: violazioni del diritto internazionale, uso indiscriminato della forza, occupazione, coloni. Ma servirebbe una volontà politica che ora non c’è: si teme la reazione degli Stati Uniti, si teme l’effetto sugli scambi, sugli interessi strategici. La sospensione dell’Accordo di associazione dovrebbe poi essere realmente applicata.

Alcuni considerano queste idee radicali, altri le rifiutano come irrealizzabili. Lei parla anche di “isolamento israeliano”. Il Paese è davvero isolato oggi?

Sì. Le società civili europee, col boicottaggio culturale, le proteste, la pressione mediatica, lo stanno facendo isolare. I governi non hanno fatto abbastanza, ma l’isolamento de facto c’è già. Se mostrassimo sempre di più questo isolamento, Israele capirebbe che non può restare come se niente fosse.

Qual è il dato più controintuitivo o che sorprende di più, secondo lei, rispetto al dibattito pubblico italiano ed europeo?

Che la maggioranza dell’UE non abbia il coraggio, finora, di riconoscere formalmente la Palestina, nonostante il Parlamento europeo abbia votato per questo. Che si parli di sanzioni e sospensioni, ma ci si limiti alla retorica. Che Israele sia ancora considerato un’alleanza così indispensabile da molte élite europee da risultare quasi intoccabile. Vuol dire che il dramma umanitario – le decine di migliaia di vittime civili, il numero di persone che muoiono per mancanza di aiuti – non ha ancora smosso le coscienze europee.

Cosa può fare in concreto un cittadino europeo che vuole far sentire la propria voce in questa crisi?

Esigere trasparenza dal proprio governo: chiedere che voti nel Parlamento europeo seguendo una linea coerente con i diritti umani, sostenere organizzazioni che chiedono giustizia, partecipare alle campagne di boicottaggio mirate, non violente, su prodotti commerciali, eventi culturali o sportivi. E informarsi: non basta la cronaca, serve comprensione delle dinamiche geopolitiche, del diritto internazionale, dell’impatto umano.

Ultima domanda: lei intravede qualche spiraglio di speranza, una situazione che potrebbe cambiare in meglio nei prossimi mesi?

Vivo a Gerusalemme, di spiragli ne vedo pochi, anzi il conflitto si allarga; Israele si percepisce come potenza egemone; gli attacchi non solo proseguono ma si espandono anche fuori Gaza. Però qualcosa potrebbe cambiare se l’Europa decidesse davvero di fare il salto: riconoscimento effettivo, sospensione dei rapporti con chi viola i diritti umani, isolando politicamente e diplomaticamente Israele senza cedere al ricatto strategico. Se questo avviene, se si unisce la volontà politica con la pressione delle società civili, allora potremmo intravedere un lume di dignità, una prospettiva nuova.

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Tags: Benjamin Netanyahu

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