Manca poco alla deadline del 9 luglio ed è difficile capire se sarà possibile raggiungere un accordo sui dazi tra Usa e Ue

Dodici sono le lettere che Donald Trump ha spedito e verranno consegnate oggi anche all’Unione europea. Diciassette (per cento) è la tariffa che il Presidente americano minaccia di imporre sui prodotti alimentari; cinquanta per cento è il dazio sull’acciaio e sull’alluminio; venticinque quello sulle auto; sarà il novanta per cento se manca un accordo; dieci per cento è quel che si paga già su tutta una serie di merci; è anche la quota sulla quale molti Paesi tra i quali la Germania e l’Italia vorrebbero chiudere al più presto (anche subito), come ha fatto il Governo britannico.



Riassumiamo: 17, 50, 25, 90, 10, è la cinquina della tombola americana, quel che resta per il momento della gigantesca tabella con la quale Trump si era presentato in tv il 2 aprile. Tra il Liberation day e l’Indipendence day (4 luglio, venerdì scorso) alcune cose sono cambiate, per esempio c’è stato l’accordo con la Cina che porta le tariffe al 55%, ma consente a Pechino di vendere terre rare e semiconduttori per il settore auto. Nell’insieme, però, è aumentata la confusione.



Mancano tre giorni alla scadenza, mercoledì prossimo, della deadline data all’Unione europea. E confusione è esattamente la parola che usano a Bruxelles per descrivere la situazione. La posizione ufficiale è che l’Ue è “favorevole a una soluzione negoziata; questa è la priorità”, ma i 27 Stati membri non accettano tutti la stessa linea. La Francia oscilla, tentata dalla linea dura, ora sembra pendere verso una soluzione meno soddisfacente, ma rapida. Solo oggi si saprà a chi sono indirizzate le lettere e quale sarà il loro contenuto. Si parla di toni duri, di un “prendere o lasciare” che non prelude a compromessi diplomatici. Trump ha annunciato che “contengono diverse cifre, diversi ammontare di tariffe”.



Sia la Commissione, sia il Governo italiano nel fine settimana hanno mandato messaggi tranquillizzanti, ma nel frattempo in ogni Paese è montato l’allarme nel mondo del lavoro e della produzione. In Italia hanno usato toni forti importanti esponenti di diversi settori. Tariffe del 17% sono considerate “insostenibili” dalla Federalimentare, il presidente Paolo Mascarino prevede un calo significativo dell’export e la pensa così anche Giacomo Ponti della Federvini. Per gli industriali farmaceutici non va bene nemmeno il 10%: è a rischio un miliardo e mezzo secondo Marcello Cattani presidente di Farmindustria che spezza la sua lancia per dazi zero.

Gli imprenditori della componentistica auto sono presi tra due fuochi: direttamente per quello che viene spedito negli Stati Uniti e indirettamente per quello che prende soprattutto la via della Germania. Si accontentano di un 10% i produttori di mobili e le aziende della meccanica strumentale che è in cima all’export verso gli Usa, arrivato nel suo insieme a 66 miliardi di euro, poco meno delle vendite in Germania.

Il danno c’è comunque, e alcune aree saranno più colpite di altre (la Lombardia per esempio); si tratta di ridurlo, possibilmente minimizzarlo, ma non si può davvero star tranquilli. Il rischio di un fallimento esiste. Che cosa accadrebbe in tal caso da mercoledì in poi?

La posizione ufficiale è che scatterebbe la rappresaglia europea. Era stato già preparato un pacchetto in risposta alle tariffe sull’acciaio e sull’alluminio; è stato sospeso, ma è chiaro che su questi settori, così come sull’auto, l’Ue deve tener duro. Sono comparti fondamentali per l’economia del Vecchio continente, Germania e Italia sarebbero le più penalizzate, ma anche Francia e Spagna subirebbero conseguenze molto gravi. Nell’insieme l’intera industria europea sarebbe travolta da una pesante reazione a catena, provocando una grave recessione.

C’è inoltre a Bruxelles un secondo elenco di ritorsioni verso quelli che si chiamano dazi orizzontali o reciproci. Si conosce la cifra globale, 90 miliardi di euro, ma non altri dettagli anche perché qui si sono manifestate divergenze tra i Paesi membri. La trattativa spetta alla Commissione, ma è chiaro che non può rappresentare 27 Paesi divisi e in ordine sparso.

Al contenzioso sulle merci si aggiunge quello sui servizi in particolare digitali. Trump non vuole che siano tassati e ne ha fatto una conditio sine qua non del negoziato con il Canada. Il Primo ministro Mark Carney ha adottato una tattica flessibile, si è detto pronto a sospendere l’aggravio di imposte per favorire un accordo complessivo. Washington ha cantato vittoria, in realtà il Canada non ha fatto marcia indietro, ha mostrato buona volontà.

È una spada di Damocle anche sulla testa dell’Europa, né la Commissione, né i Paesi membri hanno ancora affrontato una discussione che si presenta complicata, vista la divergenza tra falchi e colombe.

L’Italia finora ha fatto la colomba anche sulle merci, il Governo ha cercato di presentarsi come pontiere, tuttavia è difficile attenuare il pericolo che non è solo economico, ma sociale: una stima del Censis prevede che siano a rischio 68.280 posti di lavoro con un costo possibile di ben 18 miliardi di euro e un rallentamento dell’economia. Se così fosse sarebbero in pericolo anche gli equilibri di bilancio finora tenuti sotto controllo. E l’Italia, meglio ricordarlo, è in procedura d’infrazione per un disavanzo pubblico superiore al 3% e un debito pubblico pari al 148% del Pil, che ha superato i tremila miliardi di euro.

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