La recensione (contiene possibili spoiler) del film di Emerald Fennel, regista al debutto ma nota come showrunner della seconda stagione di Killing Eve
Una donna promettente è uno di quei film che mette alla prova lo spettatore, perché è talmente sovrapposto al suo tema da sembrare una proposizione con cui essere d’accordo o meno, sul principio più che sulla sua elaborazione. Probabilmente era uno degli obiettivi di Emerald Fennel, regista al debutto ma nota come showrunner della seconda stagione di Killing Eve.
Il tema è la cultura dello stupro e la società che volente o nolente la sostiene, la protagonista è Cassie (Carey Mulligan, strepitosa), una ragazza che qualche anno prima ha visto la sua vita interrotta da un trauma e che ora passa le sue nottate come giustiziera, impartendo lezioni agli uomini squallidi che incontra, fatte di spavento. Ma l’arrivo di un possibile amore e la ricomparsa di quel trauma la costringeranno a fare i conti (anche) con se stessa.
Anche sceneggiatrice (ruolo per il quale ha da poco vinto l’Oscar), Fennel costruisce con Una donna promettente un ribaltamento del rape and revenge, quel sotto-genere in cui la donna stuprata si vendica in modo spesso violentissimo: Cassie non vuole uccidere chi ha stuprato la sua amica, costringendola al suicidio, il suo obiettivo è molto più ambizioso e lungimirante, vuole impedire che ciò accada di nuovo “educando” i maschi che pensano di poter approfittare delle donne, ma anche affrontando le femmine che la cultura maschilista l’hanno ormai interiorizzata.
Fennel quindi impagina tutta una serie di situazioni in cui mostrare quella cultura in azione, anche prima di arrivare ai gesti definitivi, mostra come si comportano gli uomini con le donne, mostra come le donne si sentano dentro una cultura simile che è endemica, spesso fa parte dello stesso sistema socio-culturale (la sequenza con la preside dell’Università). La regista lavora espressamente sulla ripetizione e sulla serialità episodica delle situazioni, ma fatica a trarne una complessità narrativa, espone il suo slogan e poi non ne fa un tema, non riesce a svolgerlo compiutamente.
Una donna promettente gioca con l’avant-pop (il pop usato in contesti più alternativi o d’avanguardia), prende le Spice Girls e Britney Spears e poi le riarrangia con Wagner, usa i colori e le scenografie per sottolineare la dimensione psicologica della protagonista, e soprattutto è abile a irretire lo spettatore, a stuzzicarne l’attesa, a centellinare le risposte: peccato che poi quando debba risolvere quell’attesa non sia mai all’altezza, se ne esca sempre in modo deludente. Emblematica la svolta a mezz’ora circa dalla fine che apre un potenziale che poi risolve nel più meccanico e blando dei modi.
Dispiace soprattutto che a fronte del suo talento come scrittrice e del potenziale visivo, Fennel si sia accontentata di dire, anziché di raccontare, di fare in modo che la sua agenda politica – sacrosanta, urgente e meritevole di maggiore complessità di discorso – si sostituisse alla narrazione cinematografica, che la lotta diventasse un film un po’ lagnoso, involontariamente vittimistico, a misura della tv di 10 anni fa, quando invece con Killing Eve ha dimostrato una finezza di pensiero, racconto e immagine sicura e contemporanea. Per Mulligan è la prova della vita, certo, e se porta qualche maschio in più a pensare al mondo in cui vive va bene, ma siamo al minimo sindacale, purtroppo.
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