In attesa del Simposio di Jackson Hole che si terrà a fine mese, e che forse potrà fornire qualche indicazione sulle mosse di politica monetaria della Federal Reserve a partire da settembre, gli Stati Uniti hanno dovuto fare i conti con il downgrade da parte di Fitch, che ha tolto la tripla A ai T-bond. Una decisione che è stata contestata dal segretario al Tesoro Janet Yellen, ma che non ha sorpreso Mario Deaglio, Professore emerito di Economia internazionale all’Università di Torino: «Se si guarda all’evoluzione nel tempo del debito pubblico degli Stati Uniti, si può notare che la sua traiettoria sta diventando sempre più simile alla nostra. Oltre a ciò, va anche detto che l’economia americana non migliora».
Pil e occupazione, però, salgono.
Il Pil forse meno di quanto ci si aspetterebbe visto il livello del deficit. È vero, poi, che aumenta il numero degli occupati, ma si tratta soprattutto di impieghi con bassa qualific, mentre quadri o tecnici vengono licenziati, come accaduto nei mesi scorsi nel comparto tech.
Il downgrade di Fitch rappresenta anche un colpo al dollaro?
Certo, ma vedo anche una situazione a monte che non aiuta certamente il dollaro. Non si capisce bene, infatti, quale sia la politica estera, quindi la geopolitica, come anche la politica interna. Non c’è una chiara linea dei Democratici, che tra loro sembrano avere quale comune denominatore l’avversione nei confronti di Trump.
Può farci un esempio della mancanza di una chiara linea sul fronte geopolitico?
Basta citare il caso clamoroso dei rapporti con Pechino con la necessità di inviare a il segretario al Tesoro Yellen per rimediare all’uscita del Presidente Biden, che aveva definito Xi Jinping un dittatore poche ore dopo il termine di una lunga e a quanto pare proficua missione del segretario di Stato Blinken che aveva anche incontrato il suo omologo cinese, il ministro degli Esteri Qin Gang, e lo stesso Presidente Xi Jinping. Nella super diplomazia mondiale una cosa del genere non dovrebbe accadere. Ma anche su Medio Oriente e Africa non si capisce bene quale sia la posizione americana.
La Cina può approfittare di questo momento di difficoltà degli Stati Uniti?
Anche la Cina non sta benissimo, ha i suoi problemi politici interni al Pcc, il commercio con l’estero è in calo, quindi anche il Pil. Di conseguenza, è difficile capire cosa faranno i cinesi e gli altri Paesi Brics riguardo il loro progetto di de-dollarizzazione. Non va comunque dimenticato che alla fine dell’anno scorso è stata creata in Sudafrica la Sovereign Africa Ratings (Sar), la prima agenzia di rating totalmente africana, che intende concentrare le sue analisi sul proprio continente ritenendo che le attuali agenzie internazionali sottovalutino le sue potenzialità. Questo è un segnale di un’Africa che si compatta e da cui Europa e Usa appaiono sempre più escluse, anche a causa dei propri errori.
Il quadro internazionale è, quindi, ovunque contrassegnato dall’incertezza.
È così. Anche perché l’anno prossimo ci saranno appuntamenti elettorali importanti: negli Usa, in Europa e anche in Russia. Con incognite di questa portata è davvero difficile fare previsioni e prendere decisioni per chiunque.
La Cina è, quindi, anche in attesa di capire chi ci sarà alla Casa Bianca l’anno prossimo?
Certo.
Cosa può cambiare tra Democratici e Repubblicani rispetto ai rapporti con la Cina?
A mio avviso, retorica a parte, i Repubblicani sarebbero meno bellicosi. Non dimentichiamo che le guerre negli Stati Uniti le hanno quasi sempre cominciate i Democratici. In ogni caso tra Usa e Cina sembra al momento inevitabile una qualche forma di dialogo, non fosse altro perché le terre rare, che hanno utilizzi industriali importantissimi, sono quasi tutte in mano a Pechino.
L’Italia non può però aspettare l’esito delle elezioni del 2024 per decidere cosa fare rispetto ai rapporti con la Cina e al memorandum sulla Via della Seta…
Sembra ormai chiara la volontà italiana di non rinnovare questo accordo, ma ci sono almeno 60-70 milioni di cinesi benestanti che rappresentano un ottimo mercato di sbocco per molti nostri prodotti appartenenti a svariati comparti. Credo, quindi, che Pechino vorrà qualcosa in cambio dello stralcio del memorandum siglato nel 2019. Penso che l’obiettivo possa essere una quota, anche di minoranza, in un porto, come nel caso di Amburgo, purché possa controllarne direttamente la gestione di una parte di attività. Questo, però, non piace agli americani e il nostro Paese non può mettersi contro Washington su questo. Vedremo, quindi, come ne uscirà l’Italia.
(Lorenzo Torrisi)
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