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Home » Cronaca » VIOLENZA SULLE DONNE/ Gruppo Fb “Mia moglie”, la mancanza di consenso genera violenza

  • Cronaca

VIOLENZA SULLE DONNE/ Gruppo Fb “Mia moglie”, la mancanza di consenso genera violenza

Paola Binetti
Pubblicato 31 Agosto 2025
Facebook (Ansa)

Facebook (Ansa)

La vicenda del gruppo FB "Mia moglie" dimostra una violazione dell'intimità senza precedenti. Un fenomeno che richiede nuove modalità di intervento

Negli ultimi giorni abbiamo assistito a un episodio inquietante: migliaia di uomini hanno condiviso foto delle proprie mogli, compagne o conoscenti in un gruppo Facebook, ironicamente chiamato “Mia moglie”, quasi sempre senza consenso, accompagnandole con commenti sessisti, volgari, e in alcuni casi apertamente violenti.


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Questa non è goliardia. Non è ironia È una forma di violenza. Digitale, invisibile, ma devastante. Le donne non vengono più viste come persone, ma come oggetti da esibire. È un meccanismo che alimenta la violenza domestica e di genere.

Viviamo in un’epoca in cui il corpo femminile viene ancora trattato come proprietà, come trofeo da esibire, come merce da condividere per ottenere approvazione maschile. E quando questa logica si insinua persino nelle relazioni intime, quando chi dovrebbe proteggere persone che gli sono care diventa il primo a tradire la loro fiducia, allora bisogna dire basta, con chiarezza e con fermezza.


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Le istituzioni debbono intervenire con più prontezza e con più fermezza. Le piattaforme digitali devono assumersi la responsabilità di ciò che ospitano. Ma soprattutto gli uomini debbono interrogarsi seriamente e capire perché è indispensabile cambiare registro e cambiare velocemente, perché tutte le donne devono sapere che non sono sole e che esistono reti di supporto, centri antiviolenza, professionisti pronti ad ascoltare e agire, stando dalla loro parte. La libertà non è un favore. È un diritto. La dignità non è negoziabile, è sacra.

I fatti

La vicenda del gruppo Facebook “Mia Moglie” ha scoperchiato un vaso di Pandora che va ben oltre la semplice violazione della privacy. Dal 2019 oltre 32mila uomini si sono iscritti a un gruppo Facebook dove condividevano foto intime o quotidiane delle proprie mogli, compagne o conoscenti, senza alcun consenso da parte loro. Le foto erano spesso accompagnate da commenti sessisti, volgari e violenti. Solo dopo ripetute denunce il gruppo è stato rimosso da Meta per violazione delle policy contro lo sfruttamento sessuale.

Ciò nonostante, sono subito nati gruppi molto simili, conferma di una certa radicata normalizzazione di questi comportamenti. Si tratta di una forma di violenza non fisica ma profondamente invasiva: le donne coinvolte hanno vissuto un trauma, spesso scoprendo casualmente di essere esposte online da chi avrebbe dovuto proteggerle.

Sorprende profondamente la totale mancanza di consapevolezza sul valore del consenso, che non è affatto percepito come un elemento fondamentale della relazione. il consenso viene spesso percepito come “negoziabile” o addirittura irrilevante. Molti uomini sembrano ancora considerare il corpo femminile come proprietà da esibire, un oggetto da condividere per ottenere approvazione maschile.

Questa vicenda non è un caso isolato, ma il sintomo di una violenza strutturale che si è spostata online. Per questo serve una risposta collettiva: educativa, normativa e culturale. Perché la libertà e la dignità delle donne non possono essere oggetto di “condivisione” né di complicità silenziosa.

La misoginia digitale e l’assenza di etica digitale

Le persone iscritte al gruppo “Mia moglie” hanno dimostrato inoltre una ignoranza e una superficialità senza limiti nel sottovalutare la potenza amplificatrice della violenza digitale, che è così diventata una sorta di rituale di appartenenza e non solo un atto individuale.

Studi sul tema mostrano che la violenza digitale amplifica il trauma perché la vittima perde ogni controllo: un’immagine privata può riapparire ovunque e per sempre. È in atto una normalizzazione della violenza in rete, in cui si radicalizza il disprezzo verso le donne. Smartphone, social media, domotica sono usati per monitorare, manipolare e intimidire le partner. E questo abuso tecnologico non è solo una nuova forma di violenza, ma un potenziamento di dinamiche già esistenti nelle relazioni tossiche.

La Farnesina illuminata di rosso nella Giornata contro la violenza sulle donne, 25 novembre 2025 (Ansa)

La stessa casa può trasformarsi in uno spazio di sorveglianza, dove ogni gesto viene registrato e potenzialmente condiviso.

Nel mondo digitale, esiste un effetto moltiplicatore, indelebile, perché una volta online, un contenuto può essere duplicato, salvato, diffuso all’infinito. Questo rende la violenza permanente, anche se il gruppo viene chiuso o il post rimosso. Le vittime vivono un trauma che si rinnova ogni volta che il contenuto riemerge.

Il silenzio istituzionale e tecnologico come danno strutturale

Sorprende la reazione di Meta, che ha dichiarato di aver rimosso il gruppo solo dopo le pressioni pubbliche e politiche e le denunce di alcune vittime, che per caso erano venute a conoscenza del fatto. Questo dimostra una reazione tardiva, nonostante il gruppo violasse da tempo le policy contro lo sfruttamento sessuale. Evidentemente le piattaforme tendono a intervenire solo quando il danno diventa mediaticamente visibile, e già da tempo è diventato sistemico.

Anche la Polizia postale ha avviato le indagini solo dopo che il caso è esploso sui media, raccogliendo oltre 2.500 denunce in 36 ore. Il caso ha comunque evidenziato la mancanza di una cultura del monitoraggio proattivo; sembra che né Meta né le autorità posseggano strumenti efficaci per monitorare gruppi che operano ai margini della legalità, ma che causano danni enormi.

Il fatto che il gruppo sia rimasto attivo per sei anni indica una lacuna sistemica nel controllo dei contenuti digitali. Oltre tutto dopo la chiusura, molti utenti si sono spostati su Telegram e WhatsApp, dove la collaborazione con le autorità è ancora più difficile e questo dimostra che la chiusura di un gruppo non basta: serve una strategia coordinata tra piattaforme e forze dell’ordine. Ma serve soprattutto una formazione profonda sul piano etico, che restituisca alle relazioni interpersonali il loro pieno valore di rispetto reciproco.

Conclusione

Questa circostanza ha confermato una volta di più che il valore di riferimento nella nostra società non è la dignità umana, ma la capacità di generare attenzione, visualizzazioni, profitti.

In questo caso specifico erano i like che facevano la differenza, creando un cortocircuito che vanificava ogni discorso sul rispetto e sulla parità. E le ricadute più gravi erano sempre a carico della donna.

Oltre il 70% delle vittime di “revenge porn” sviluppano sintomi clinici di ansia e depressione, una su tre mostra segni di disturbo post-traumatico da stress e tutte le vittime vivono una grave perdita di fiducia nei confronti del partner. Viene meno il senso di sicurezza: chi doveva proteggere diventa aggressore.

Eppure, ciò nonostante, il 58% delle donne vittime di violenza online dichiara di provare senso di colpa, nonostante la responsabilità sia dell’autore dell’abuso e loro siano vittime innocenti.

Sono circostanze che vanno messe in relazione con la violenza domestica e i troppi femminicidi che accadono in Italia. I dati dicono che nel 75% dei femminicidi la donna aveva già subito forme di controllo, umiliazione o violenza psicologica prima dell’omicidio (Istat, 2024).

È necessario mettere al centro della riflessione generale l’esigenza assoluta del consenso, senza mai darlo per scontato, e la revisione nell’uso del digitale, in entrambi i casi insistendo sulla formazione e sul senso di responsabilità.

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Tags: Violenza Sulle Donne

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