"Massimo Bossetti sacrificato. Negato test del Dna per non far crollare il sistema", la teoria dell'avvocato Claudio Salvagni sull'omicidio Yara Gambirasio

L’omicidio di Yara Gambirasio, di cui si parla oggi a Il Caso su Rai 3, è un caso chiuso per la giustizia italiana, con la condanna definitiva all’ergastolo di Massimo Bossetti, ma la battaglia dei suoi legali non è affatto terminata. Lo ha ribadito l’avvocato Claudio Salvagni, intervenuto recentemente durante la presentazione a Bergamo del libro “Yara Gambirasio. Un caso irrisolto” scritto da Federico Liguori.



Il legale dell’ex muratore di Mapello ha riaffermato di essere «assolutamente convinto dell’innocenza» del suo assistito e di sperare di riuscire a riaprire il caso. Nel frattempo continua a occuparsene anche a livello mediatico, ritenendo che l’informazione sia stata «altamente drogata». Secondo Salvagni, questa vicenda presenta ancora «grandissime zone d’ombra» e nel processo sono emerse «più anomalie che alleli».



Massimo Bossetti, condannato per omicidio Yara Gambirasio (Foto 2018 ANSA/Gianpaolo Magni)

A titolo di esempio ha citato la pm, che nella sua requisitoria ha sottolineato come «non fosse possibile arrivare a una ricostruzione della dinamica e non fosse stata trovata l’arma del delitto».

YARA GAMBIRASIO, IL REBUS DNA PER BOSSETTI

Il legale di Bossetti ha rievocato il concetto del ragionevole dubbio, spiegando che se è pur vero che la verità processuale non sempre coincide con quella storica, è altrettanto vero che la «verità processuale è una ricostruzione che unisce tante tessere del mosaico per dare un’immagine che non lasci il ragionevole dubbio». Ma, secondo l’avvocato, ciò non può dirsi dell’iter processuale relativo all’omicidio di Yara Gambirasio.



«Il DNA e gli indizi creano un quadro, secondo le sentenze, sufficientemente chiaro, ma gli indizi, se non ci fosse stato il DNA, non avrebbero avuto alcun senso. Quindi, il nodo di tutto il processo è il DNA». Tuttavia questo elemento, secondo la difesa, presenta «tantissime anomalie», tra cui la più importante: l’assenza di una parte della cellula. «Il DNA è stato attribuito a Massimo Bossetti, ma c’è solo la componente nucleare», quindi manca «l’altra faccia della medaglia».

A tal proposito, la Cassazione non avrebbe smentito la presenza del DNA mitocondriale, ma avrebbe osservato che non si vede. «Un po’ come Babbo Natale: c’è ma non si vede», ha commentato sarcasticamente Salvagni. È come se, ha aggiunto, i giudici avessero chiesto un atto di fede.

L’ATTACCO DI SALVAGNI AL “SISTEMA”

Ancora più grave, per l’avvocato, è stato il diniego alla difesa di esaminare quel DNA, una richiesta avanzata sin dall’inizio del processo. «Durante tutto il processo è sempre stato affermato che non era possibile fare una perizia sul DNA perché non c’era più materiale da analizzare», ha ricordato Salvagni.

Ma un’inchiesta giornalistica di Giangavino Sulas ha scoperto, grazie al professor Casali, che c’erano 54 provette conservate al laboratorio San Raffaele di Milano. La difesa aveva ottenuto l’autorizzazione a esaminare quei campioni, ma «due giorni dopo sono stati distrutti».

Questa la ricostruzione del legale, che ha ribadito come sia stato così negato il diritto alla difesa. Ha quindi rilanciato l’attacco al sistema: «Chi vuole chiarezza non ha paura della verità, e chi non ha paura della verità quelle 54 provette le avrebbe conservate, le avrebbe fatte analizzare». Secondo Salvagni, evitando di riesaminare il DNA si è evitato di «far crollare tutta l’impalcatura; e crollando tutta l’impalcatura sarebbe caduto un sistema».

Infatti, ha sostenuto che l’inchiesta sia stata «venduta come unica nel suo genere», sulla quale hanno costruito carriere molte persone, «quindi questo sistema non poteva crollare e hanno sacrificato un uomo».

YARA GAMBIRASIO, LA PISTA ALTERNATIVA

Salvagni ha anche rievocato una pista alternativa, quella della traccia individuata da alcuni cani da mantrailing che, dopo aver fiutato gli indumenti forniti dalla famiglia di Yara Gambirasio, «puntarono a uno sgabuzzino utilizzato da alcuni operai polacchi», dove «c’erano tracce di sangue vecchie e alcuni reperti», ma questa pista non è mai stata approfondita.

Eppure, negli atti sarebbe scritto che «sicuramente è successo qualcosa di grave» in quel cantiere, perché le persone che vi lavoravano «si sono messe d’accordo per fare dichiarazioni concordate». Il fatto che i cani abbiano fiutato qualcosa non significa necessariamente che Yara Gambirasio fosse stata lì, ma che «magari qualcuno che ha avuto a che fare con lei negli ultimi momenti prima che sparisse è stato lì».

MASSIMO BOSSETTI, IL LAVORO “IMMENSO” DELLA DIFESA

Nel corso del suo intervento Salvagni ha ricordato anche il lavoro svolto finora, segnalando che il fascicolo processuale è «immenso», con le sue 60.000 pagine solo per quanto riguarda quello del pubblico ministero. «Io e il mio team abbiamo lavorato veramente giorno e notte su questa vicenda. Soprattutto il periodo iniziale è stato tremendo. Non vi nascondo che più di una volta abbiamo lavorato incessantemente per 24-26 ore».

Infine, Salvagni ha osservato di aver detto «cose molto dirette» nei confronti degli inquirenti, dai quali però non ha mai ricevuto alcuna querela.