LETTURE/ Renzi, Schmitt e lo “stato d’eccezione”: democrazia addio?

- Markus Krienke

In Italia vige una cultura dell'eccezionalità. Peccato che lo "stato d'eccezione" di cui parlava Carl Schmitt sia ora soprattutto in politica (vedi alla voce Matteo Renzi). MARKUS KRIENKE

matteorenzi_tesseraR439 Matteo Renzi (Infophoto)

Di eccezionalità l’Italia ne ha tante da vantare, a partire dalla sua cultura e geografia, non solo territoriale ma anche culinaria ed enologica, fino a quei tanti piccoli momenti quotidiani in cui “si chiude un occhio”, facendo prevalere l’aspetto umano su quello strettamente legale e fiscale. Gli italiani possono e devono essere fieri per tanti punti di vista della loro cultura dell’eccezionalità. Se solo l’eccezione rimanesse anche tale e non diventasse spesso la regola.

Politicamente, infatti, si ha da un po’ di tempo l’impressione che questa inversione sia realmente avvenuta, e non a caso Carl Schmitt torna ad essere un punto di riferimento, almeno implicito, non solo per le élites intellettuali, ma anche per gli stessi osservatori politici. Un autore che ha sempre ispirato tutti coloro che sentivano il fascino o l’inevitabilità dell’estremo; e la nostra situazione attuale, caratterizzata da un dubbio generale nel potenziale delle istituzioni costituzionali, sembra decisamente alimentare queste tendenze. 

Ricordiamo che la domanda di Schmitt verte su chi decide veramente al di là della stessa costituzione (appunto nel caso dell'”eccezione” che mette in crisi la “regola”), e il dibattito attuale è segnato non solo dalla delusione per chi decide in effetti (Renzi, Napolitano, Berlusconi…) ma anche e comunque dal desiderio di qualcuno che decida veramente (ciò spiega il consenso per Grillo). Il potere sovrano è quindi concepito come quello che sta al di fuori di ogni regola. Per Schmitt ciò era un’analogia al potere divino: non a caso, la sua opera centrale è intitolata Teologia politica.

Si tratta, quindi, di un potere più “di fatto” che non “di diritto” e pertanto nel continuo bisogno di alimentare la sua legittimità: così si ricorre al fatto delle elezioni europee che però non possono sostituire il ruolo legittimante delle urne nazionali; ci si basa sulla necessità delle riforme come promessa politica estesa ai prossimi mille giorni, senza chiarire però la precisa scadenza (non aveva annunciato, lo stesso Renzi, alcuni mesi fa per ogni mese una riforma fondamentale di un settore strategico?). E il semestre italiano in Europa è divenuto un nuovo argomento per legittimare eccezionalmente il governo attuale. Tutto ciò per dimenticare il progetto originale di Renzi, l’unico che sarebbe stato conforme alla regola costituzionale e alla sentenza 1/2014 della Cassazione, cioè di presentarsi alle elezioni con una nuova legge elettorale. Per questo, il governo Renzi non si basa sulla sovranità popolare ma, più remotamente, sulla decisione di chi aveva proclamato lo stato di eccezione in un momento di crisi economica e occupazionale e di stasi governativa (Letta).

A ben vedere, il problema vero in questa interpretazione schmittiana è che viene scavalcato il principio di rappresentanza politica, cuore di ogni vera democrazia, perché principio di libertà. 

Solo chi è rappresentato si può identificare con la decisione politica (il principio “no taxation without rappresentation”, parola di libertà delle colonie americane contro la corona britannica, sarebbe infatti da ripensare oggi), non chi sottostà ad una decisione sovrana. Tale principio può essere restituito al suo funzionamento soltanto, e ciò pare più che ovvio, tramite una riforma della legge elettorale, che però, nella costellazione “schmittiana” attuale, è ancora di là da venire.

In questa situazione lo stesso Grillo, con il suo grido di ritrasferire la sovranità al popolo, fa politica di partito, meglio del partito suo, costituendo anch’egli una situazione “di fatto” e non “di diritto” attraverso l’identificazione tra la presunta “volontà generale” e la sua volontà partitica. A ben vedere, è lo stesso meccanismo dell’eccezione schmittiana, realizzato e costruito in maniera un po’ diversa. Anche tale identificazione oltrepassa il principio di rappresentanza, e vede nella decisione del leader il momento in cui una presunta volontà popolare si forma.

Questa analisi cosa significa per la situazione politica di oggi? Dalla fine dell’era Berlusconi si lascia delineare una genealogia della crisi di sovranità in Italia che è confluita nella costituzione di un perenne “stato di eccezione”. A ben vedere, lo stesso Berlusconi ha dato l’incipit a tale dinamica, indicando la crisi economica dell’Italia come “decisione” di attori stranieri, stati o agenzie di rating. Ma tali “schmittianismi”, che da quel momento appaiono dietro ogni angolo, nascondono il vero problema, che è la crux della stessa retorica schmittiana, ossia il suo anti-liberalismo di fondo. La retorica schmittiana, impossessatasi dello scenario politico, fa perire lentamente gli ultimi residui di liberalismo di cui la storia della politica italiana può vantare parecchi esponenti di spicco (De Gasperi, Einaudi ecc.). 

Allo stesso momento, e ciò costituisce il vero indebolimento dell’Italia, il potere decisionale si rivela sempre di più un’illusione, in un mondo ormai determinato dalle regole di un’economia globalizzata e di meccanismi governamentali sempre meno compatibili a schmittianismi nazionali. In altre parole, per superare il paradosso di una sovranità sempre più illusoria e autocontraddittoria, ci sarebbe bisogno di centri decisionali molto meno “al di sopra della costituzione” quanto invece “al di sotto della costituzione”. Tale cambiamento si può realizzare, però, soltanto attraverso riforme liberali che Renzi fin ora ha solo annunciato. Non è da scordarsi, infatti, che il liberalismo costituzionale stesso costituisce, nella storia delle idee politiche, il più forte avversario alle teorie di Carl Schmitt.

Ovviamente è più che difficile indicare delle “ricette” in questo momento. Invece, per concludere, lo sguardo si rivolge su colui che è stato l’avversario concreto di Schmitt: si tratta di un certo Erik Peterson la cui confutazione dell’opera schmittiana fu talmente sentita dallo stesso Schmitt che ancora 35 anni dopo, morto ormai il suo oppositore, sentì la necessità di rispondergli. 

Qual era questo argomento importante di Peterson? Egli ricorreva a sant’Agostino per criticare la retorica schmittiana, accusandola di essere una completa politicizzazione della vita sociale, con la conseguente degradazione di ogni libertà personale ed economica. Mentre la costituzione liberale riduce lo stato a garante per la realizzazione degli individui attraverso il libero mercato, la teoria schmittiana della sovranità lo rende riferimento assoluto ed ideologico per ogni singolo. Peterson, a sua volta, criticava Schmitt meno per difendere una posizione liberale quanto piuttosto per criticare la sua deduzione storica del decisionismo: il modello “costantiniano” in cui la Chiesa appoggia un’idea assoluta del politico e quindi un controllo politico della vita, non corrisponde all’idea originale del cristianesimo. In sant’Agostino, infatti, si troverebbe un dualismo significativo tra la “città terrena” e quella “celeste”. Il liberalismo della costituzione ha quindi eminenti basi culturali, anche se in tempi di crisi sono questi ad essere dimenticati e messi via per primi. Una cultura di forte critica e ridimensionamento della politica e di chi decide sull’eccezione.

Anche questa cultura, a ben vedere, ha la radice in una “eccezione” italiana, ossia la presenza del Vaticano. Papa Francesco sta interpretando questo ruolo in un nuovo modo, fuori dagli intrecci istituzionali e da quel modello “costantiniano” che non consentiva alla Chiesa di costituire una vera eccezione allo stato. Non lo stato deve trovarsi in una posizione di eccezione, quindi, ma questa deve essere costituita al di fuori dello stesso, come ad esempio da una Chiesa che non cerca di esercitare potere politico, ma forma ciò di cui oggi, come contrappeso allo “stato di eccezione”, ci sarebbe maggior bisogno: le élites morali, alla cui formazione la religione ha sempre dato e darà sempre un contributo indispensabile, per contrastare il livellamento della società e del suo legittimo pluralismo ad una mera società di massa. Secondo i pensatori liberali da Hayek a Röpke, infatti, è la società di massa, priva di élites morali e culturali, la più incline a perdere la propria libertà e ad una sovranità d’eccezione. 

Una tale società di massa è caratterizzata, innanzitutto, per la sconnessione tra ricchezza e responsabilità, e infatti in ciò sta forse il maggiore problema culturale dei nostri tempi, come del resto aveva previsto già lo stesso Röpke: «richesse oblige. Ogni privilegio, sia di nascita, sia spirituale o di onori, conferisce dei diritti solo nella misura in cui è accettato come un impegno. Ognuno deve far fruttare il proprio talento e non dimenticare mai la responsabilità che gli viene imposta da una posizione privilegiata. Se l’abusata frase “giustizia sociale” ha una giustificazione, è proprio questa. Uno dei doveri della ricchezza è di contribuire a colmare quelle lacune che il mercato lascia aperte, poiché si tratta di beni estranei all’ambito dell’offerta e della domanda. È un compito, questo, che non deve essere affidato allo Stato, se si vuole una società libera».

Riscoprire questo spirito che caratterizzava l’eccezione italiana sin dal Rinascimento, sarebbe la vera risposta alla crisi, che, come abbiamo visto, è decisamente più politica che economica.





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