LETTURE/ Shakespeare, la fede (cattolica) e la domanda sull’uomo

- Silvia Ballabio

Il canone-Shakespeare è una delle questioni più complesse sul grande drammaturgo. Una di queste riguarda il "Thomas More" e il cattolicesimo del suo autore. SILVIA BALLABIO

carabelli_shakespeare_meetingR439 Andrea Carabelli durante il "Thomas More" rappresentato al Meeting di Rimini 2016 (Foto Centro Culturale di Milano)

Il canone-Shakespeare è una delle questioni più complesse che riguardano il drammaturgo; quali opere, quanto, con che fonti, con che intenti. Opere autografe non ve ne sono, ad eccezione di tre pagine a cui capitò la sorte negletta di finire nell’opera più politicamente scorretta dell’età elisabettiana, il Thomas More. Scritto a cinque mani, l’opera dedicata al grande umanista ma ribelle cancelliere che negò ad Enrico VIII quel giuramento di fedeltà che l’atto di Supremazia del 1534 impose a tutta l’Inghilterra, finì nell’oblio; non fu mai rappresentata e il manoscritto mostra gli interventi di Tilney, il Master of Revels (un pubblico ufficiale incaricato di assicurarsi che le opere messe in scena fossero politically correct, in sostanza il censore). Questi cassò il persuasivo discorso di Thomas More volto a sedare una rivolta di londinesi, anche se le tre pagine autografe attribuite a Shakespeare richiamano all’obbedienza dei buoni cristiani al sovrano; con quel discorso More si avvia alla brillante carriera che lo porta prima al cancellierato, e poi alla rovina, quando la sua fede cattolica lo conduce prima al grande rifiuto e poi all’esecuzione.

L’opera non venne rappresentata ai tempi di Shakespeare e, chiusa nella British Library, rimase sconosciuta fino ad inizio Ottocento; da allora ha goduto di scarsa fama sulle tavole del teatro, anche per la sua stranezza: un’opera dedicata a un santo (di popolo) cattolico, in piena età elisabettiana, anglicana e protestante, aveva le gambe corte e, secondo gli studi recenti, si trattò di una censura ininterrotta, legata ad imbarazzo culturale. 

La posizione di Shakespeare come recusant, vale a dire di un cattolico che professi di nascosto la sua fede rifiutando di partecipare alla messa anglicana come il di lui padre, pur sindaco della cittadina di Stratford-upon-Avon, è, nella ridda di interpretazioni che sono legate a questo mistero ambulante che in realtà fu un uomo, una della tante oscillazioni del pendolo della critica. Questa, sulla base di elementi scarni e rivoltati come un calzino, più volte e da autorevoli mani, costruisce uno Shakespeare allo stesso tempo contro l’establishment che dell’establishment, visto che presenta un ebreo che sanguina come un cristiano in The Merchant of Venice, ma scrive abbastanza Henrys da glorificare il suolo natio per tutti i secoli a venire. 

La stessa critica ci propone, e con pari autorità per la serietà dell’indagine minuziosa, uno Shakespeare anglicano e recusant, visto che Shakespeare tratteggia un King Lear che si muove in un macrocosmo pagano, ma anche un Hamlet padre al Purgatorio, il “regno di mezzo” innominabile per i Protestanti, e uno che mette in bocca ad un cattolico, Thomas More, a cui non era conveniente dedicare non un’opera teatrale, ma nemmeno un sonetto, le  parole persuasive di un grande oratore e statista.

Stabilire il peso specifico di questo discorso, prodotto su commissione dell’autore principale del Thomas More, è tuttavia impresa ardua; tre pagine di un grande discorso, e che lanciano More sulla strada del cancellierato, non bastano per fare di Shakespeare un uomo in sentore di cattolicesimo, anche se nella libertà espressiva di chi lo rivisitasse oggi, come accaduto nel Tommaso Moro di Otello Cenci, la suggestione può essere forte e persuasiva. Tirare i grandi, e non vi è dubbio che Shakespeare sia immenso, per la giacchetta non sarebbe operazione artisticamente convincente o proficua; rispettarne il mistero o meglio indagarlo con categorie non dualistiche potrebbe portare a interessanti conclusioni quali quelle proposte, nel lontano 1946, da un grande poeta inglese, W.H. Auden, che ebbe a dire nel corso della conferenza introduttiva ad un ciclo informale di presentazione di tutto il canone shakespeariano:

Shakespeare, like everybody else, inherits Christian psychology. We can argue for hours as to what Shakespeare believed, but his understanding of psychology is based on Christian assumptions of the kind you can find in every man“.

“Shakespeare, come chiunque altro, eredita la psicologia cristiana. Possiamo discutere per ore di quanto Shakespeare credesse, ma la sua comprensione della psicologia è basata su assunti cristiani del tipo che si può trovare in ogni uomo”.

Nell’era della post-verità, dove nessuno ormai eredita la psicologia cristiana senza, come direbbe T.S. Eliot, a great labour, gli assunti cristiani elencati da Auden, l’uomo come essere tentato e libero, o i buoni come coloro che possono cadere, da opporsi ad Un-Christian assumptions, quali la convinzione che conoscere il bene sia fare il bene, o che gli uomini siano determinati dalla loro nascita o dall’ambiente, sono sconosciuti; la vera domanda non può più essere se Shakespeare sia stato recusant o no, ma se abbia davvero inventato l’umano, o se, invece, non l’abbia ereditato. E se tale eredità lo rese immenso, leggerlo ed amarlo potrebbe essere una strada, nell’ambito della querelle qui proposta, per la ricostruzione di un umanesimo cristiano. 







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