PAPA/ È Benedetto a salvare la giustizia dallo scempio dei giustizialisti. Non solo in Belgio

- Ubaldo Casotto

Dalla testimonianza del Papa davanti al crimine della pedofilia e agli abusi di un giudice animato da spirito anticlericale, come sottolinea UBALDO CASOTTO, emerge un’esigenza infinita di verità e di giustizia

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“Una delle caratteristiche fondamentali del pastore deve essere quella di amare gli uomini che gli sono stati affidati, così come ama Cristo, al cui servizio si trova (…). Amare significa: dare alle pecore il vero bene, il nutrimento della verità di Dio, della parola di Dio, il nutrimento della sua presenza (…). Cari amici – in questo momento io posso dire soltanto: pregate per me, perché io impari sempre più ad amare il Signore. Pregate per me, perché io impari ad amare sempre più il suo gregge (…). Pregate per me, perché io non fugga, per paura, davanti ai lupi”.

È un passaggio dell’omelia di inizio pontificato di Benedetto XVI che, riletto, aiuta a capire l’atteggiamento del Papa nei confronti delle accuse di pedofilia a sacerdoti e vescovi, e anche la sua lettera a monsignor André-Joseph Léonard, presidente della Conferenza episcopale del Belgio, dopo la brutale (e invero assurda, tanto da sconfinare nel ridicolo, come ha notato Vittorio Messori sul Corriere della Sera) perquisizione della magistratura belga giunta sino alla profanazione delle tombe di due cardinali.

Benedetto XVI non ha intenzione di decadere, non dalla linea della “trasparenza” come corrivamente in tanti scrivono, quasi fosse un assessore ai lavori pubblici, ma dal livello di quella supplica: “Pregate per me, perché io non fugga, per paura, davanti ai lupi”.

È evidente nella testimonianza del Papa un’esigenza infinita di verità e di giustizia – che il peccato e il crimine della pedofilia rendono ancora più urgente e struggente – da cui non si può deflettere, neanche di fronte agli abusi di un giudice animato da spirito anticlericale.

Un’esigenza che si attua nella responsabilità dell’amore: “Amare significa: dare alle pecore il vero bene, il nutrimento della verità di Dio”. C’è un passaggio terribile dell’ultima intervista di don Luigi Giussani (2004), quando disse che a un certo punto la Chiesa “si è vergognata di Cristo”. È ultimamente la vergogna di Cristo che fa mettere sulla difensiva di fronte al mondo e che può far temere la verità e la giustizia. Benedetto XVI evidentemente di questa “vergogna” non vuole essere connivente. 

 

Papa Joseph Ratzinger si mostra al mondo con una statura umana e di fede che gli dà l’autorevolezza per denunciare il “triste momento” vissuto dai vescovi belgi senza che questa denuncia sembri un’autodifesa d’ufficio. Una statura che dà forza alle sue parole quando definisce “sorprendenti e deplorevoli” (è un Papa che scrive a un confratello vescovo, ma va ricordato che è anche un Capo di Stato che compie un gesto formale e ufficiale) le “modalità con cui sono state condotte le perquisizioni”. Modalità che ottengono il risultato opposto allo scopo per cui i magistrati belgi dicono di essersi attivati: la giustizia.

Come fa notare il Papa, l’irruzione della polizia giudiziaria ha interrotto i lavori dei vescovi del Belgio che “tra l’altro, avrebbe dovuto trattare anche aspetti legati all’abuso di minori da parte di Membri del Clero”. La conseguenza dell’azione giudiziaria brandita ideologicamente e pregiudizialmente non è mai l’accertamento della giustizia, semmai l’allontanamento da essa, se non una conclamata ingiustizia. Cos’altro è il sequestro di tutto il materiale della Commissione diretta dallo psicologo Peter Adriaenseens, comprese le schede di chi aveva espressamente rifiutato il ricorso alla giustizia civile, di chi aveva chiesto l’anonimato e la riservatezza, e quelle sui reati caduti in prescrizione che alla magistratura non possono più interessare?

Ma la denuncia di questo abominio per il Papa non diventa un alibi: “Più volte io stesso ho ribadito che tali gravi fatti vanno trattati dall’ordinamento civile e da quello canonico, nel rispetto della reciproca specificità e autonomia. In tal senso, auspico che la giustizia faccia il suo corso, a garanzia dei diritti fondamentali delle persone e delle istituzioni, nel rispetto delle vittime, nel riconoscimento senza pregiudiziali di quanti si impegnano a collaborare con essa e nel rifiuto di tutto quanto oscura i nobili compiti ad essa assegnati”.

C’è in queste parole anche una lezione di diritto, di procedura, di cultura giuridica, di garantismo. Ma soprattutto c’è, all’origine di questi criteri, un amore alla singola persona – quella dell’offeso come quella dell’indagato – senza del quale non si può capire il cristianesimo, né il pontificato di Joseph Ratzinger, il difensore della Ragione che si scioglie in lacrime davanti alle vittime degli abusi.





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