EDDIE VEDDER/ “Ukulele Songs”, confessioni di una rockstar…

- Paolo Vites

Il primo album solista del leader e cantante dei Pearl Jam è un disco per sola voce e ukulele. Pazzia oppure umiltà di sperimentare e valorizzare la sola voce? La recensione di PAOLO VITES

UkuleleSongsR400 La copertina di "Ukulele Songs"

Davanti a un disco come questo, le reazioni potrebbero essere essenzialmente due. La prima: è una rockstar, può permettersi il lusso di fare quello che vuole, anche le cazzate. La seconda: è una rockstar, ma facendo un disco in questo modo ha dimostrato di essere un uomo umile e semplice.
Probabilmente – come sempre – vale la via di mezzo. Certo è che, se tanto ci dà tanto, è probabile che nei negozi di strumenti musicali, almeno in America, potremmo assistere a breve a un boom delle vendite dell’ukulele. Perché il primo (l’altro, era in realtà era una colonna sonora, quella dello splendido film “Into the Wild”) album solista – che si intitola appunto “Ukulele Songs” – del leader  e cantante dei Pearl Jam, una delle rock band più amate al mondo, è un disco per sola voce e ukulele.

Non sapete cos’è l’ukulele? Ma sì, lo sapete. E’ quel simpatico e piccino strumento a corde, una sorta di chitarra in miniatura, caratteristico delle Hawaii e che di solito si regala ai ragazzini che ancora non sanno suonare la chitarra. Eddie Vedder, che ama le Hawaii dove trascorre gran parte del suo tempo libero facendo surf, ama anche l’ukulele. Non è mai stato un chitarrista nei Pearl Jam, salvo sporadiche occasioni. Da cui i dubbi dell’inizio: non poteva cercarsi un chitarrista vero, o provare a imparare lui meglio lo strumento, e fare un disco nella classica impostazione da songwriter, quella a cui Vedder ambisce da tempo, ritagliandosi sempre più spazio all’esperienza con la sua band? Doveva proprio scegliere questo strumentino che in effetti non dà grande spessore alla musica che accompagna? Poteva, certo. Ma ha fatto così. Il risultato alla fine funziona.

Eddie Vedder suona l’ukulele con sfrontatezza e incisività rock, evitando sdolcinature che lo strumento potrebbe suggerire, regalando a tutto il disco quell’atmosfera di serena intimità che probabilmente lui cercava. Come dire: attenzione, sono sempre un cantante di una rock band, ma questo è quello che amo fare quando sono da solo a casa mia, e queste sono le mie confessioni intime.

Eddie Vedder è un sopravvissuto del terremoto grunge. La sua band scoppiò in faccia al mondo contemporaneamente ai Nirvana di Kurt Cobain. Fra i due ci fu anche una sorta di rivalità, ma poi Cobain fece la fine che fece e Vedder portò avanti la sua missione musicale. Non senza dubbi e ripensamenti: il carattere della sofferenza, abbinato a una forte coscienza politica, sono sempre stati i lati espressivi del suo animo. Da qualche anno però i ‘Jam vanno stretti al cantante e così ogni tanto ama esibirsi in concerti solisti dove rispolvera canzoni del patrimonio d’autore americano, da Bob Dylan a Phil Ochs passando per Cat Stevens, oppure brani autografi.

Il fatto è che Eddie Vedder ha una delle voci più belle e intense dell’intera storia del rock. Con una voce così uno può veramente fare quello che vuole, anche cantare, come si usa dire, l’elenco del telefono. Così questa voce risalta magnificamente  in “Ukulele Songs”. C’era già stata la colonna sonora di “Into the Wild”, come dicevamo, più ricca musicalmente, ma lì la perla era il brano di un amico cantautore, la bellissima Society.

Qui la perla in realtà è anche questa volta un brano altrui, l’antica Sleeepless Nights classico della country music, inciso un po’ da tutti, dagli Everly Brothers a Emmylou Harris. Edie Vedder la fa a due voci con il cantante dei Swell Season, Glen Hansard, quello conosciuto grazie a un’altra colonna sonora, altrettanto meravigliosa, quella del film “Once” dove recitava anche la parte del protagonista. Irlandese Glen, californiano Eddie: un incontro musicale di formidabile bellezza dove la tradizione della grande canzone popolare diventa immediatamente eterna.

Ma non deludono molti dei brani pennellati dal cantante dei ‘Jam, ad esempio l’intensa Broken Heart, piena di tutta la sofferenza che solo un cuore spezzato può rilasciare. O l’iniziale Can’t Keep, in realtà un pezzo già inciso dai Pearl Jam. Beatleasiana invece – altro grande amore del nostro – è Without You, mentre  Tonight You Belong to Me è niente altro che uno scherzetto, inciso a due con la sensuale Cat Power, a tempo di musichetta hawaiana. Ci sono  brevi intermezzi, come una partenza sbagliata sottolineata da un paio di imprecazioni, c’è lo squillo di un telefono, ci sono le onde del mare profondo.

C’è un brano però che gode di almeno un secondo strumento, il violoncello. E’ Longing to Belong to You. “Desidero appartenerti”, ma non è la traduzione esatta, “longing” in inglese ha un significato più ampio, è un desiderio struggente, un bisogno inappagabile. Il pezzo è tra i migliori del disco e il violoncello rende bene l’atmosfera richiesta, apre squarci di profonda suggestione per un testo che esprime l’inesprimibile: “Il mio cuore è una ferita aperta che solo tu sai rimpiazzare, ho bisogno di appartenerti”. Per una volta allora Eddie Vedder si ritaglia un ruolo ben lontano da quello di carismatico leader del rock alternativo, uno che ha guidato le folle contro la guerra in Iraq e cento altre cause. Perché alla fine, ciò con cui si deve sempre fare i conti  sono le ansie e le irrequietezze del cuore. Il bisogno di appartenere, perché da soli non ce la si fa. Davanti a un tramonto sull’oceano delle Hawaii, Eddie Vedder e il suo ukulele raccontano tutto ciò.





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