DELINES/ “Colfax”: motel, fast food, stazioni di servizio. Cosa resta del Sogno Americano

- Fausto Leali

Dischi come libri e viceversa. Il leader dei misconosciuti Delines, Willy Vlautin, racconta le strade secondarie di un'America nascosta e fallimentare. di FAUSTO LEALI

delines_R439 The Delines

“C’è sempre questo sogno di scappare, ma non esiste un luogo da cui fuggire, ognuno di noi non fa altro che correre verso se stesso” (Willy Vlautin)

Lei ha soltanto 15 anni. Carica tutte le sue cose sull’auto di famiglia e scappa, perché morire un po’ alla volta a casa, oppure da sola, nel mondo là fuori, non fa davvero differenza. Guida di notte, lungo strade solitarie e deserte, fino ad arrivare al confine, la linea dove riposano tutti i pensieri e i desideri insoddisfatti del suo cuore. Ma non riesce ad attraversarlo. Così torna indietro e dopo trent’anni quel fotogramma è sempre lì, immobile ed uguale, perché non puoi fuggire da nessun posto se nulla al mondo sarà mai una casa. La vita le appare come la stessa scena di uno stesso film. Quella linea sottile ed immobile che tutti possono varcare, salvo lei.

State Line è una delle tante canzoni di Colfax, il bellissimo disco dei Delines, uscito un anno fa, ma passato quasi inosservato dalle nostre parti. Delines, ovvero il gruppo creato da Willy Vlautin, frontman dei Richmond Fontaine, band americana anch’essa sicuramente poco nota al pubblico italiano. Solo la fama di Vlautin, musicista ma anche e soprattutto scrittore – quattro libri pubblicati ed il primo, Motel Life, divenuto anche un film – è riuscita a varcare in qualche modo l’oceano, anche grazie alle traduzioni dei suoi testi. 

Le sue canzoni, come i suoi libri, sono piene di storie così. Straordinariamente tristi, ma anche terribilmente ordinarie. Un po’ stereotipate, a volte, nel loro cliché fatto di motel, fast food decadenti, vecchie stazioni di servizio su strade dimenticate. Ma tutte ben descrittive di quel sogno americano continuamente inseguito e mai realizzato. E’ per questo, forse, che molte delle canzoni di quest’album, ma anche della maggior parte dei dischi dei Richmond Fontaine, hanno come sfondo il viaggio e la strada. Colfax Avenue, State Line, 82nd Street, descrivono bene il desiderio scritto dentro un percorso di fuga da un presente spesso insostenibile, verso una linea di confine immaginaria che racchiude tutti i sogni e le speranze, ma che il destino sposta inesorabilmente sempre un po’ più in là. Spesso paragonato a Raymond Carver o a Cormac McCarthy, Vlautin sembra non desiderare altro, nei suoi lavori, se non di continuare a descrivere le infinite modalità con cui si dimostra quanto “l’America sia un paese duro con le persone”. Uno sguardo che non appare mai rabbioso, né sprezzante, ma, piuttosto, semplice, pacato, colmo di rispetto, come dolcemente partecipe del destino delle vite che gli passano accanto, quasi vi fosse al fondo la consapevolezza nel sentirle compagne di viaggio nel mistero di un’insondabile esistenza.

Il linguaggio musicale dei Delines – definito, forse in maniera limitativa, country soul – esplora in direzione di un maggior minimalismo quello dei Richmond Fontaine, già splendido esempio del genere alternative country, riuscendo a creare suggestioni sonore notturne dove accade che anche i silenzi divengano spazi dell’anima capaci di armonizzarsi con le note. Il gruppo nasce poco più di un anno fa, sul desiderio di Vlautin di scrivere una manciata di storie per la voce di Amy Boone, ex Damnations, da cui egli è rimasto irrimediabilmente affascinato dopo averla ascoltata durante un tour con i Richmond Fontaine. Il disco viene inciso insieme ad altri membri di gruppi già esistenti, quali Jenny Conlee-Drizos (Decemberists) e Tucker Jackson (Minus Five), ed a vecchi amici come Sean Oldham, batterista dei Richmond e Freddy Trujillo. Il 2014 ha visto i Delines impegnati in una tournée che ha toccato diverse città di Stati Uniti, Australia, Nuova Zelanda ed anche d’Europa, fatta eccezione, purtroppo per l’Italia. Ed è di questi giorni la ripresa di concerti della band a Seattle e Portland, la città vicino alla quale vive attualmente Vlautin.     

Nel suo splendido libro “Levelland”, sottotitolato “nella periferia del rock americano”, Fabio Cerbone esprime bene da dove possano originare le storie ed il sound dei Richmond Fontaine e, quindi, degli stessi Delines: “il far west si è fermato all’ultima stazione, da qui la libertà americana può continuare solcando l’oceano ed espandendosi nel mondo con le armi da guerra. La città diventa quindi un teatro di desolazione e il deserto comincia ad essere umano: per questo non c’è nulla di spettacolare che valga la pena di essere narrato, meglio una quotidianità che sia lo specchio di tante vite alla deriva”. 
Il Nevada e Reno, città d’origine di Willy, sono stati fin dall’inizio un’inesauribile fonte d’ispirazione per racconti di questo tipo, e il tempo non ha fatto  altro che acuire sempre di più la sensibilità dell’autore nel cogliere le infinite sfumature della realtà. Racconta lo stesso Vlautin di come tempo fa si fosse trovato in un bar di Richmond, mentre veniva proiettato un documentario sui reduci di guerra, tornati dal fronte alle prese con danni psicologici spesso permanenti e di come fosse stato l’unico a rimanerne fortemente impressionato: “Rimasi allibito. Portland non è una città militare, perciò non è abituata ad avere a che fare con problematiche di questo tipo. Pensai che dovevo capire cosa fosse successo a quegli uomini”. 
Temi che vengono affrontati, ad esempio, in Colfax Avenue, una delle canzoni del disco dei Delines, dove la protagonista, sorella di un reduce dalla guerra in Iraq, si mette disperatamente alla sua ricerca durante la notte, andando su e giù per la strada principale della città. “E’ l’idea di individui feriti, resi esausti, ma ancora in grado di lottare. Prendi la voce di Amy: è una voce a metà strada tra lo sfinimento e la bellezza. Ho scritto ogni canzone pensandola mentre va al lavoro a Detroit, oppure a Baltimora, vecchie città ormai smunte e sbiadite, mentre è intenta a mettere il brandy nel suo caffè ed a tirare avanti mentre la vita si riempie sempre più di crepe, ma ancora in grado di lottare. Questo è il cuore da cui tutte queste canzoni vengono fuori”. 

Me lo immagino, Willy, sempre sorridente mentre risponde alle domande dell’intervistatore di turno, così come appare spesso anche nelle fotografie, o mentre suona la sua chitarra sul palco. Descrivere la bellezza dentro vicende d’ordinaria disperazione o di follia – Motel Life è uno degli esempi di questa capacità narrativa – è davvero la caratteristica che più risalta all’occhio in chi si imbatte in quest’artista. Qualcosa per lo meno di sorprendente, se non addirittura di strano. 
Se non fosse che è lui stesso a fornirci una chiave di lettura del suo sguardo narrativo: “A volte mi accade di diventare cinico di fronte ai miei problemial punto da dimenticarmi d’essere attento alle persone che ho intorno. Sai, c’è quella frase famosa, che dice: “sii gentile, perché ogni persona che incontri sta combattendo una dura battaglia” (Platone, ndr). Un piccolo gesto, chiedere a una persona come sta, provare ad ascoltarla per cinque minuti, può aiutare ad andare nella giusta direzione. Tutto l’interesse che ho per i personaggi dei miei racconti sta nel fatto che stanno combattendo una battaglia. Non importa quanto siano sotto pressione, ogni mattina si rialzano ed iniziano a cercare un posto migliore in cui andare. Scrivere le loro storie mi aiuta a non dimenticarmi di smettere di farlo anch’io”. 

 

Ad un anno esatto dall’uscita del disco dei Delines può essere bello, allora, incontrare la loro musica di nuovo, così come quella di tutto l’ampio repertorio dei Richmond Fontaine, per i quali Willy Vlautin ha promesso un nuovo disco in tempi brevi. Canzoni che sanno dipingere, col fascino delle chitarre elettriche e della pedal steel, i colori del giorno e le ombre della notte. Ascoltare testi e note per non perdere la sensibilità per il dolore che ci passa accanto nell’attimo presente della vita. E l’ultimo verso di Calling In, brano d’apertura di Colfax, un refrain insistentemente ripetuto dalla splendida voce di Amy Boone, rappresenta forse il passaggio più decisivo: “darkness ain’t such a hard road if we don’t go down it alone/l’oscurità non è una strada così dura quando la si percorre insieme/Let’s never go back/Non torniamo indietro, mai”. Percorrere insieme il cammino, anche quando si fa duro. Per riscoprire inaspettatamente il gusto della vita.





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