JOBS ACT/ Così il Pd affossa la riforma di Renzi

- Giuliano Cazzola

Il contratto a tutele crescenti doveva essere il secondo atto del Jobs act voluto da Renzi. Sembra però che non sarà incisivo come si pensava. GIULIANO CAZZOLA spiega perché

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Sembra inverosimile la polemica scoppiata nella maggioranza in commissione Lavoro del Senato a proposito del cosiddetto Codice o Testo Unico semplificato dei rapporti di lavoro e del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti, contenuto nel disegno di legge delega (il secondo tempo del Jobs Act) attualmente in discussione in quella sede. All’improvviso, i componenti del Pd si sono dissociati, coinvolgendo in questo atto anche il Governo, nelle persone, dapprima, del sottosegretario Teresa Bellanova (un’eroina nel fare la guardia al bidone), dello stesso ministro Giuliano Poletti, poi.

La storia – con una meticolosità certosina – è raccontata da Pietro Ichino nella sua newsletter a cui facciamo rinvio, dove è contenuto un vero e proprio diario del dibattito in Senato. Sembra che a un certo punto i senatori del Pd si siano accorti di un dato di fatto che è sempre stato presente, fin da quando, qualche anima bella, con il cuore a sinistra, ma con la testa attenta alla realtà, si è inventato il sarchiapone che, strada facendo, si è qualificato come contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti.

Per anni, di questa forma contrattuale si sono avuti diversi copyright, ciascuno con tanto di brevetto di un intellettuale (economista e/o giurista) di area, il cui elaborato, nella trascorsa legislatura fornì materia per la presentazione di disegni di legge da parte di deputati democrat un po’ più spregiudicati della media (poi non rieletti). Per un lungo periodo si ritenne pure che questo contratto di nuovo conio potesse fregiarsi del requisito dell’unicità, sbaragliando sul campo tutte quelle forme d’accesso “spurie” rivolte a garantire flessibilità in entrata allo scopo prevalente di potersene avvalere anche all’atto della risoluzione del rapporto.

Poi, i protagonisti del progetto si resero ben presto conto che, per quanto reso flessibile e adattabile, non poteva esservi un “unico” contratto in grado di regolare adeguatamente ogni possibile esigenza scaturita nell’incontro tra domanda e offerta sul mercato del lavoro. Le forme contrattuali, definite con un po’ di puzza sotto il naso “atipiche” non sono il frutto di una congiura ai danni della classe lavoratrice, bensì, se correttamente applicate, un modo congruo e pertinente di disciplinare situazioni lavorative specifiche che, in assenza di regole adatte, finirebbero per confluire nel lavoro sommerso.

Dopo aver perduto per strada la pretesa di poter essere “unico”, che cosa rimane degli obiettivi che hanno ispirato una siffatta proposta? In altre parole, nei confronti di quale evento andrebbe previsto un percorso di “tutele crescenti”, tale da rendere più sostenibile di adesso, per le imprese, il ricorso a un’assunzione a tempo indeterminato? La risposta è sempre stata e rimane una sola: si può avere minore flessibilità in entrata se c’è minore rigidità in uscita e quindi l’articolazione delle tutele, implicita nel nuovo contratto, non può che riguardare la disciplina del licenziamento individuale.

Del resto basterebbe scorrere i progetti che assumevano l’ipotesi del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti (la verbosità della definizione non è colpa di chi scrive) per osservare che all’inizio era previsto un periodo di prova più lungo, poi il rapporto di lavoro si infilava per un certo numero di anni sotto l’ombrello di una tutela solo risarcitoria contro il licenziamento illegittimo, per approdare poi (“Giungemmo: è il Fine. O sacro Araldo, squilla!”) nel campo della tutela reale e della reintegra giudiziaria.

In sostanza, era implicita, in questa tipologia contrattuale, una revisione dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. I suoi proponenti non lo avevano mai negato. Con un cenno di sfida annunciavano al mondo: “Voi, liberisti d’accatto, sostenete che l’articolo 18 è un problema? Bene noi lo risolviamo salvaguardando la capra dell’impresa e i cavoli del lavoratore”. Ma la loro (discutibile) istanza non era ancora matura (nella sinistra e nei sindacati), così la legge Fornero prese un’altra e più complicata strada, riscrivendo di sana pianta la disciplina del licenziamento individuale.

Si poteva pensare, allora, che il problema del sarchiapone (ci si risparmi di ripetere la formula) fosse, almeno per il momento, accantonato. Invece no. Arriva Matteo Renzi e lo infila nel Jobs Act. E per mesi, mentre viene convertito con qualche mal di pancia, il decreto Poletti riguardante la liberalizzazione del lavoro a termine (una mossa che metterà totalmente fuori mercato le assunzioni a tempo indeterminato), tutti nel governo e nel Pd annunciano che la loro linea vera è un’altra: quel contratto di inserimento a tutela crescente contenuto nel disegno di legge delega. Poi, all’improvviso, scoppia un fuggi fuggi generale al grido: “Giù le mani dall’articolo 18 dello Statuto”.

Anche nella follia occorre sempre un briciolo di logica. Dobbiamo allora pensare che, secondo le menti eccelse del Pd, quella forma contrattuale indicata nel testo del disegno di legge delega fosse non una riforma del contratto a tempo indeterminato con riguardo alle norme sul recesso, ma una ulteriore tipologia di rapporto di lavoro che veniva ad affiancarsi da un alto al modello standard, tronfio della sua aura di stabilità e dall’altra al contratto a termine, made by Poletti?

Per favore non scherziamo. Osserviamo piuttosto i dati. È forse prematuro, come si è fatto nei giorni scorsi, accusare di fallimento il “pacchetto Giovannini” quando manca praticamente un anno alla scadenza del programma riguardante l’assunzione a tempo indeterminato di almeno 100mila giovani, grazie a una robusta politica di incentivi a favore delle imprese disponibili (fino a 600 euro mensili). A conti fatti, però, il risultato di 22mila assunzioni è sicuramente modesto, tanto da far temere che, se non ci sarà una ripresa economica abbastanza sostenuta, l’obiettivo finale non sarà conseguito, anche perché – lo abbiamo già segnalato più volte – la recente legge Poletti ha reso molto più conveniente e appetibile l’utilizzo del contratto a termine, liberandolo dal vincolo della “causalità” per tutta la sua durata e sottraendolo così al rischio di contenzioso giudiziario.

Si dimostra, pertanto, quanto fosse corretta la considerazione di Marco Biagi: nessun incentivo economico – ancorché generoso – è in grado di compensare un disincentivo normativo. Il contratto a termine, infatti, costa di più alle imprese di quello a tempo indeterminato; nel caso del “pacchetto Giovannini” è previsto persino, per i datori, il vantaggio, per 18 mesi, di un bonus, ragguardevole, pari ad almeno un terzo della retribuzione da corrispondere al giovane neo-assunto. Le aziende, però, sono restie a impegnarsi in un rapporto stabile anche quando sono incentivate a farlo.

Ci sentiamo dunque autorizzati a concludere che sarà difficile escludere la problematica del licenziamento dall’oggetto misterioso di cui si sta parlando al Senato. Altrimenti è meglio lasciar perdere. E consentire ai morti di seppellire i morti. 







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