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Home » Economia e Finanza » CRAC GRECIA/ 2. L’operatore finanziario: “sui mercati valutari si sente l’odore del sangue”

  • Economia e Finanza

CRAC GRECIA/ 2. L’operatore finanziario: “sui mercati valutari si sente l’odore del sangue”

James Charles Livermore
Pubblicato 3 Maggio 2010
Euro_Grecia_CracR375

Con la crisi della Grecia, sui mercati valutari si sente l’odore del sangue, ci spiega JAMES CHARLES LIVERMORE, operatore finanziario

Nel 1347 le navi genovesi che navigano lungo le rotte commerciali del Bosforo fanno scalo a Costantinopoli prima di approdare, stremate da un lungo peregrinare nel Mediterraneo, a Marsiglia. Sulle navi infuria il morbo della peste, contratto dai marinai nella colonia genovese di Caffa in Crimea. È l’inizio di un’epidemia che, dopo aver decimato le pianure del Volga e del Don, si appresta a cambiare drammaticamente la storia d’Europa.


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Oggi una nuova danza macabra sembra risuonare tra i Paesi della moneta unica, uno spettacolo incapace di seminare morte ma perfettamente in grado, oggi come allora, di imprimere una svolta alla storia. Sui mercati valutari si sente l’odore del sangue. Per la prima volta dalla sua recente nascita, l’eurozona è attraversata dal panico dell’insolvenza e la paura del contagio sembra spingere a un isterismo di massa.


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Cosa è successo? È successo che il merito creditizio della Repubblica Greca ha subito un pesante declassamento da parte di Standard & Poor. L’agenzia di rating non ha esitato a definire i titoli di stato ellenici un investimento speculativo, equiparando, di fatto, il debito pubblico greco al passivo di un’impresa sull’orlo del baratro.

Sugli effetti distorsivi di tali annunci – soprattutto a mercato aperto – si potrebbe scrivere un manuale intero. Potrebbe seguire un secondo tomo, questa volta sugli effetti che certe norme contabili in materia di derivati hanno sulla finanza pubblica.


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Resta il fatto che la crisi è reale e ha già varcato le porte dei mercati europei. In Portogallo il debito pubblico è rifinanziato agli stessi tassi che il piano di salvataggio europeo prevede per un eventuale aiuto alla Grecia. In Spagna più di quattro milioni di persone, quasi il 20% della forza lavoro, a fine marzo erano disoccupate, mentre in Irlanda la paura per un’insolvenza ha portato il costo di un’assicurazione sui crediti (Credit Default Swap, abbreviato cds) dai 90 punti base di metà marzo a quota 200.

PER CONTINUARE A LEGGERE L’ARTICOLO SULLA CRISI DELLA GRECIA CLICCA IL PULSANTE >> QUI SOTTO


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Mentre le nubi nere dell’insolvenza si addensano sui mercati, c’è un aspetto che rischia di passare inosservato. Nell’ultimo decennio l’illusione di un euro forte ha funzionato come un enorme tappeto sotto il quale nascondere tutto o quasi. C’erano paesi con modelli economici agli antipodi, esigenze finanziarie spesso divergenti, c’era soprattutto il culto ossessivo per l’unica politica monetaria implementata a livello comunitario, quella antinflazionistica.

 

Oggi scopriamo una realtà più inquietante. Mentre l’inflazione nella zona euro scendeva da picchi a due cifre giù fino alla media del 2,5% degli ultimi dieci anni, i paesi dell’Unione e soprattutto i suoi cittadini accumulavano quantità di debito mai viste prima. Mutui fino al 90% del prezzo di acquisto dell’immobile, carte di credito, prestiti al consumo, carte revolving, finanziamenti concessi dando a garanzia quel 10% della casa acquistato con soldi propri (non è uno scherzo, si chiama home equity loan).


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L’Europa a valuta forte era diventata irragiungibile ai suoi stessi cittadini, milioni di persone impegnate a rincorrere un livello di vita che oggi presenta il conto. E allargando il campo si scopre che Regno Unito e Stati Uniti navigano a vista nello stesso mare di debito. Di che preoccuparsi, allora? Siamo tutti sulla stessa barca, si direbbe.

 

Non proprio. E la differenza sta tutta in un piccolo dettaglio che tempo fa un loquace viaggiatore, mio vicino sul treno Londra-Parigi, mi fece notare, mentre passava tra le dita una moneta da un euro. Sulla banconota da un dollaro americano campeggia il volto a sfinge di George Washington, mentre sulla moneta da una sterlina è inciso il profilo austero della Regina Elisabetta II. Il rovescio della moneta da un euro, nella versione d’oltralpe, è invece occupato da un albero della vita stilizzato, mentre nella versione italiana la superficie è riempita dalle geometrie dell’uomo vitruviano. Insomma, nessuno ci ha messo la faccia.


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E oggi, mentre i mercati del debito europeo scricchiolano, nessuno ha certo intenzione di mettercela. Ma in questo vuoto di idee e di rappresentanza, l’Eurozona, al contrario di Regno Unito e Usa, rischia di perdere una tra le armi più efficaci per risponere a un’emergenza che nell’immediato è circoscritta al solo perimetro monetario. Se il sistema valutario affonda sotto il peso di miliardi di debiti, l’euro non potrà più incidere sul futuro dell’Unione, non potrà neppure agire da valvola di sfogo attraverso un’espansione inflazionistica che svaluti il debito nei confronti delle altre valute.

 

Il modo in cui siamo arrivati a tutto questo, meriterebbe un’indagine a parte ma, come già successo per l’epidemia del XIV secolo, i primi sintomi di questo male sembrano essere giunti dall’Oriente. Il surplus commerciale dei paesi asiatici, i deficit galoppanti in Europa e Stati Uniti non sono un caso. Il grande accesso al debito, i mercati emergenti a basso costo e l’apparente stabilità del sistema finanziario hanno attirato una moltitudine di ex-risparmiatori verso una giostra da cui è difficile riuscire a scendere.

 

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L’Occidente è indebitato, assuefatto a un gioco d’azzardo che di volta in volta coinvolge il mercato immobiliare (con i suoi mutui aggressivi), le prospettive di aumento dei salari (erose dal credito al consumo), insomma qualsiasi opportunità di crescita si profili all’orizzonte. In poche parole, il debito in euro è una fuga in avanti, una corsa ad afferrare il futuro per anticiparlo.

 

Oggi l’euro è scambiato contro il dollaro a 1,33, ben lontano dai picchi di luglio 2008 quando per acquistare valuta europea, era necessario andare oltre il dollaro e mezzo. Questo significa che il debito americano convertito in euro vale molto di più, rendendo l’equilibrio globale tra est e ovest ancora più precario.

 

Forse è ancora presto per gridare alla catastrofe e forse è troppo tardi per accorati appelli alla calma. Tra gli operatori si avverte un’aria elettrica di attesa, quasi che non sia ancora chiaro se l’uragano all’orizzonte spazzerà i mercati o passerà oltre senza lambire la costa. Per le strade della city la gente si raccoglie sotto le insegne dei pub e al pallido sole di primavera discute dei mercati come se le notizie riguardassero un mondo lontano, un paesaggio esotico conosciuto solo in fotografia. Tornano alla mente le parole di Giovanni Boccaccio, quando all’esplodere della peste nera descriveva in questi termini la reazione di alcuni davanti all’epidemia:

 

«Altri […] affermavano il bere assai e il godere e l’andar cantando a torno e sollazzando e il soddisfare d’ogni cosa all’appetito che si potesse e di ciò che avveniva ridersi e beffarsi esser medicina certissima a tanto male».

 

La gestione dei numeri e, soprattutto, della psicologia giocherà un ruolo fondamentale nei prossimi giorni. Trovare una via d’uscita per questa emergenza richiede un sapiente equilibrio tra salvataggi in tempi brevi e terapie drastiche di lungo periodo. I risultati sono difficilmente prevedibili, se mai lo sono stati, ma una cosa è certa. D’ora innanzi, non sarà più possibile affidarsi al caso: con una moneta da un euro non si può più fare a testa o croce.

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