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Home » Educazione » Riforme scolastiche » SCUOLA/ La prima sfida non è la riforma, ma il rapporto tra alunni e docenti

  • Riforme scolastiche
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SCUOLA/ La prima sfida non è la riforma, ma il rapporto tra alunni e docenti

Antonella Paolillo
Pubblicato 12 Gennaio 2010
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Il problema della droga interessa ragazzi sempre più giovani

ANTONELLA PAOLILLO sostiene che il sapere che trasmette la scuola non parla più ai giovani oggi. Indica l'urgenza di una “traduzione” di questo sapere da parte degli insegnanti, a cui è affidato il compito di riflettere sui processi della conoscenza e di trovare linguaggi e metodi capaci di entrare realmente in comunicazione con gli studenti.

A volte abbiamo una percezione improvvisa del cambiamento: un giorno dalle gite scolastiche sono sparite le chitarre, è finita l’annosa disputa tra quelli che in pullman cantavano La canzone del sole e i patiti di Alba chiara: era nata l’era del walkman e delle cuffie. Altre volte i cambiamenti li sentiamo lenti e progressivi. È il caso del far scuola. Da tempo abbiamo la percezione che qualcosa si stia sfaldando. In sala insegnanti, per spiegare questo fenomeno, si fa uso e abuso di alcuni evergreen di sicuro successo:  questi ragazzi non hanno le basi/ non seguono/sono sempre più superficiali/immaturi/fragili, le famiglie li coprono sempre, e così via fino al conclusivo: ogni anno riesco a fare sempre meno. In alternativa, si nega: è sempre stato così… Intanto fuori dalle sacre mura, sulle pagine dei giornali, a scadenze stagionali, arrivano puntuali i dati sul disastro della scuola in generale e sull’ignoranza crescente degli studenti in particolare e si distribuiscono colpe e responsabilità: il sindacato, le mancate riforme, i ministri, il sistema di reclutamento degli insegnanti e così via. Poi si riparte. La campanella suona e tutti si torna in classe. Tutti a sentire che qualcosa non va, che stiamo girando a vuoto.


SCUOLA/ Stop al cellulare in classe, non chiediamo a una buona legge di fare "tutto"


Una cosa è certa: quel patrimonio di cultura che abbiamo ricevuto, studiato, perfino amato, lo comunichiamo e spesso ci mettiamo anche della passione. Come mai allora una larga (sempre più larga) fetta di studenti sembra aver dissipato tanto rapidamente quel che ha ricevuto in anni e anni di scuola? Perché sembra che non si arrivi a un vero “apprendimento” nel senso etimologico del termine, cioè quel processo per cui quel che abbiamo studiato entra a far parte di noi, sangue del nostro sangue e carne della nostra carne? Sembra quasi che quel che viene dalla scuola venga gettato dopo l’uso, sputato dopo l’interrogazione o il compito in classe, in modo che non intacchi l’organismo. Risultato? Ragazzi impermeabili alla cultura, almeno a quella che viene passata dalla scuola. E qui i negazionisti si agitano: non è vero, non sono mica tutti così. Constatazione sempre vera in ogni tempo e ad ogni latitudine. Ma gli studenti interessati e motivati, quelli che raggiungono un apprendimento interiorizzato, uno stile cognitivo efficace, insomma le cosiddette “eccellenze”, non sono sicura che debbano a noi tutto questo; è molto probabile che sarebbero bravi comunque. Non credo nemmeno che per indurre le persone a imparare, sia decisivo il ricorso a motivazioni “esterne”, cioè i premi e le punizioni, le coercizioni e le minacce (il cinque in condotta, il sei in tutte le discipline per essere ammessi all’esame di stato): il problema ha ben altre radici e va affrontato nella sua complessità.


SCUOLA/ 4+2, due problemi aperti e un errore da evitare


 

Certo la scuola in questo momento si trova in una posizione di forte svantaggio: innanzitutto perché offre cultura, che non sta in cima alle hit del mondo adulto, figuriamoci di un adolescente. Mai e poi mai, per fare un esempio fra i tanti possibili, negli spot pubblicitari si vede qualcuno che legge e nel senso comune dei ragazzi la lettura e lo studio sono attività buone per chi non riscuote successo sociale (loro direbbero per gli sfigati); inoltre il titolo di studio non è garanzia per il futuro lavorativo, l’istruzione non è più una forma di riscatto sociale. In secondo luogo la scuola trasmette un sapere depositato nei libri, quindi richiede al discente il duplice sforzo di interpretare i simboli linguistici e di ricostruire il testo riformulandolo in un altro testo, magari solo mentale, da padroneggiare. Lavoro faticoso, che richiede concentrazione e tempo. I nostri ragazzi sul tavolo di lavoro accanto al libro di testo hanno il cellulare e molto spesso il computer, studiano e intanto tengono aperti i canali col mondo circostante, comunicano continuamente tra loro con una rapidità vertiginosa. Sono abituati a fare più cose nello stesso tempo perché chattano e ascoltano la musica, mandano un SMS e giocano alla Play, aggiornano il profilo su Facebook e cercano un volo low cost per il Capodanno a Barcellona. Non dimentichiamo che hanno imparato ad usare il cellulare, il computer e i videogiochi sicuramente senza l’ausilio del manuale delle istruzioni, ma procedendo per tentativi ed errori, con una modalità percettivo-motoria infinitamente più rapida nel ritmo e meno stancante dello studio sul libro. Il mattino dopo, a scuola, si entra in una dimensione senza tempo – la stessa dei genitori e dei nonni – di corridoi silenziosi, di cattedra, banchi e lavagne, di saperi lontani di cui poco si comprende il senso.


SCUOLA/ E politica: non è compito delle ore di lezione “curare” le ingiustizie del mondo


 

Se la scuola passa troppo lontano, se non si fa prossima a loro, noi questi ragazzi non li incontreremo e quello che offriamo non potrà mettere radici né essere utile per la vita. Ormai è urgente porsi il problema di una vera e propria “traduzione” del sapere che propone la scuola, cioè di una mediazione forte tra quel che andiamo insegnando e questa generazione che non è migliore o peggiore delle altre, semplicemente è quello che è. Partiamo da loro: con il contributo delle scienze umane e le acquisizioni delle neuroscienze possiamo provare ad esplorare un po’ più in profondità il sistema con cui i ragazzi elaborano le conoscenze, le strutture archetipiche del loro immaginario; lavorare in questo modo, per orbite un po’ più larghe, contribuirebbe anche a far uscire la scuola dalla sua asfittica autoreferenzialità. Alla politica il compito di fissare gli obiettivi finali, i profili in uscita secondo i vari ordini di scuola, le indicazioni su cosa valga davvero la pena consegnare del patrimonio che abbiamo ricevuto e cosa, con dispiacere, dobbiamo lasciare. A noi il compito di riflettere sui processi della conoscenza, sui linguaggi e sui metodi. Certo per questa impresa non basteranno i soliti appelli alla buona volontà.


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