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Home » Lavoro » IL CASO/ Scoperto “l’uomo” che ha aumentato la disoccupazione

  • Lavoro

IL CASO/ Scoperto “l’uomo” che ha aumentato la disoccupazione

Gaetano Troina
Pubblicato 1 Giugno 2012
Operaio_Auto_TunnelR400

Infophoto

I modelli costruiti da molti economisti sono alla base della presunta predominanza del capitale sul lavoro, il cui valore viene quindi sminuito. La prima dell’analisi di GAETANO TROINA

La complessità dei fenomeni economici comporta che gli effetti delle scelte e delle conseguenti operatività non hanno sempre esiti di tipo lineare, ma spesso di tipo circolare, per cui un effetto è l’origine di una o più cause che a loro volta mutano gli scenari di riferimento e con essi le congiunture in cui gli attori economici sono chiamati a operare. Il mondo dell’economia non è un mondo lineare, ma non è neanche un mondo solamente complicato: esso, in buona sostanza, è un mondo complesso che, per sua stessa natura, è assai difficile da dipanare per ricercare in maniera assoluta e incontrovertibile un soluzione univoca e certa.


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Il mondo dell’economia non è il mondo della verità, ma è il mondo dell’attendibilità. Nei processi economici non è sempre possibile effettuare con sicurezza la scelta giusta, ovvero una scelta che produca sul tessuto sociale gli effetti desiderati, ma si effettuano ragionevoli tentativi per approssimarsi a quell’obiettivo il più possibile. Molti economisti (e, di conseguenza, molti modelli economici) dimenticano che questa complessità è soprattutto dovuta al fatto che i reali processi economici sono messi in essere dagli essere umani con tutto il loro bagaglio antropologico, culturale, religioso, ecc., che congiunturalmente li distingue nello spazio e nel tempo.


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Per evitare questo scoglio, molti economisti nel predisporre i loro studi e nell’avanzare proposte solutive del reale si sono costruiti un modello d’uomo ad hoc: l’homo oeconomicus, che nella sua astrattezza è un uomo irreale perché privo di ogni sentimento e ha la peculiarità di essere razionalmente tutto concentrato a perseguire solo ed esclusivamente obiettivi di tornaconto. Così operando, molti economisti mettono in essere modelli e interpretazioni della realtà di tipo riduzionista; modelli che non tengono conto o non vogliono tenere conto di tutti i fattori e i rapporti che, invece, di fatto costituiscono la realtà che si intende indagare.


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L’homo oeconomicus deve essere immaginato razionalmente associale, altrimenti la pseudo razionalità dei modelli proposti non produce il risultato aprioristicamente atteso. In altre parole, gli economisti si sono costruiti un modello di uomo economico che non corrisponde con l’uomo reale, operano questa semplificazione per non introdurre nei loro modelli la “pesantezza” dei sentimenti e dei rapporti sociali; “pesantezza” che complicherebbe la soluzione dei loro modelli; questi modelli, infatti, sono quasi sempre di tipo riduzionista e mai affrontano la complessità dell’umano, ma si fermano, invece, sulla soglia di ciò che, a loro avviso, appare come il comportamento più razionale e raramente fanno conto con la centralità della persona e con suo il bisogno reale.


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In questa maniera l’economia non è più uno strumento al servizio della persona e del bene comune, ma diviene una sorta di sceneggiatura a cui occorre ossequiosamente obbedire e dove la persona è trasformata in individuo-numero e il suo bisogno è tacitato nel “grande” mare degli spersonalizzati e spersonalizzanti obiettivi collettivi.

Sono questi i presupposti etici che hanno permesso di mettere in piedi l’economia dei derivati, dei prodotti finanziari virtuali, l’economia delle scommesse e della speculazione, l’economia delle spallate furbe e del massimo profitto subito e a ogni costo, dell’economia che ha ridotto le stesse imprese a pseudo prodotti finanziari in quanto valgono non perché producono, ma solo se sono in grado di garantire alte remunerazioni al capitale investito. Sono questi i generatori dell’attuale crisi che hanno ulteriormente disumanizzato l’economia e che hanno veicolato, al posto di un’economia produttiva di beni e servizi, la cultura di un’economia virtuale e meramente finanziaria (speculativa) ove il valore economico si poggia non sull’operosità del lavoro, ma sulla capacità di vincere scommesse speculative di mera natura monetaria.


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Siamo di fronte a un’economia che considera il lavoro tradizionale inutile per postulare i propri obiettivi di profitto, a meno che per lavoro non si debba intendere l’analisi preparatoria all’operazione speculativa che si vuole mettere in essere. Siamo dinnanzi a un’economia degenerata perché non è posta al servizio della persona e del bene comune, ma materialisticamente ha come proprio e unico obiettivo il massimo profitto congiunturalmente conseguibile.

In un’economia come quella descritta il fattore produttivo principale è il capitale; esso solo sarebbe in grado di aggregare a sé gli altri fattori produttivi e lo potrà fare solo se sarà congruamente remunerato, altrimenti ha il dovere di sottrarsi a quella aggregazione e di ricercarne un’altra più profittevole. Quanto ora descritto è il cosiddetto postulato della priorità del capitale su tutti gli altri fattori produttivi, compreso il lavoro, questo postulato è articolatamente non condiviso dalla Dottrina sociale della Chiesa che, invece, afferma la priorità nel lavoro sul capitale.


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Il problema, come è rilevabile, oltre a quello di determinare i termini (specialmente quello più alto) della congrua remunerazione del capitale, si trova nella spersonalizzazione dei fattori produttivi; il capitale e il lavoro non sono più attività della persona umana, ma divengono quantificazioni economiche che misurano astrattamente e materialisticamente l’ottenimento o meno di prestabiliti obiettivi meramente economici. Questi ultimi, a loro volta, divengono i soli paradigmi per misurare la bontà delle operazioni, altri elementi, socialmente determinanti per le comunità di riferimento, sono poco o affatto considerati.

Sono queste, per esempio, le giustificazioni per cui un’impresa trasferisce le proprie produzioni da una nazione a un’altra, “dimenticandosi” dei rapporti etico-economici che, di fatto, aveva assunto con il territorio in cui si era insediata e lasciando dietro a sé disoccupazione e carenze produttive per altre imprese che erano sorte motivate dalla sua presenza. Sono sempre questi i paradigmi di riferimento per cui, ad esempio, nel Pil di un certo Paese non è quantificata l’utilità sociale (che ha pur una sua valenza economica) che viene prodotta dal volontariato nei vari settori in cui opera.

 

(1 – continua)

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