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Home » Lavoro » LAVORO E POLITICA/ La “fase 3” che ora serve all’occupazione

  • Lavoro

LAVORO E POLITICA/ La “fase 3” che ora serve all’occupazione

Natale Forlani
Pubblicato 11 Aprile 2020
arvedi

(LaPresse)

L'impatto sul Pil e sull'occupazione dell'emergenza coronavirus sarà forte. Il Governo dovrebbe già pensare a una strategia per la "fase 3"

Fare delle previsioni sull’impatto dell’emergenza sanitaria sull’economia e sull’occupazione nelle condizioni attuali appare un azzardo. Troppe variabili rimangono incerte, in particolare quelle relative all’intensità e alla durata delle misure di distanziamento adottate dai Governi nazionali e dall’efficacia dei risultati delle stesse. In ambito internazionale si dà per scontata una recessione simmetrica per tutte le economie dei Paesi sviluppati, che oscilla tra una riduzione del Pil del 2,5% stimata dalla Commissione europea per l’insieme dei paesi aderenti alla Unione, e quelle di alcune agenzie internazionali di rating che azzardano riduzioni vicine o persino superiori alla doppia cifra per i più grandi Paesi europei.


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Nell’insieme danno per scontato che l’impatto negativo sarà superiore per i Paesi costretti a prolungare nel tempo le misure lockdown, e quelli particolarmente esposti in termini di indebitamento pubblico, per le evidenti difficoltà nel reperire risorse per sostenere le imprese e l’occupazione. E l’Italia è l’unico grande Paese sviluppato esposto a entrambe le condizioni citate.


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Nei giorni scorsi l’Istat ha fornito alcune stime sull’impatto economico delle misure adottate dal Governo per contenere i contagi. Queste avrebbero provocato il fermo totale delle attività per il 49% delle imprese nazionali, tra le quali il 65% di quelle che esportano, con un coinvolgimento di 7,4 milioni di addetti e una riduzione del 34% della produzione. Particolarmente penalizzati i comparti finalizzati all’accoglienza e alla socializzazione delle persone, il turismo, la ristorazione, le attività ludiche e buona parte del commercio al dettaglio.

La gran parte dei servizi pubblici, al netto di quelli dedicati all’educazione e alla cultura, ha proseguito le proprie attività gestendo il personale con l’adozione delle forme di lavoro a distanza. Altri settori, la sanità in primis, ma anche la produzione e l’erogazione di beni e servizi essenziali come l’agricoltura, la grande distribuzione, la comunicazione e il commercio on line, hanno registrato un sensibile incremento delle attività. Secondo l’Istat, le riduzioni di attività si rifletteranno in una diminuzione del 4,1% del Pil nell’anno in corso nella previsione di un esaurimento delle misure antivirus entro il mese di aprile, e del 9,9% nella fattispecie di un loro proseguimento fino al mese di giugno.


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Ma è lo stesso Istituto di statistica a mettere in guardia sulla possibilità che queste previsioni possano peggiorare in relazione al probabile effetto di trascinamento di alcuni fattori organizzativi, ambientali e psicologici, che dovranno essere ponderati. Molte imprese si ritroveranno nella condizione di dover ricostruire le condizioni per il prosieguo delle attività, anche in ambito internazionale, con clienti, committenti, fornitori, creditori e debitori. Alcuni comparti, come il turismo e gli esercizi pubblici, subiranno gli effetti del coronavirus per molto tempo. L’eventuale crollo della fiducia delle famiglie, conseguente alla riduzione dei redditi disponibili, si potrebbe riflettere sui consumi finali. E in particolare sull’acquisto dei beni durevoli.


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Anche le conseguenze sull’occupazione sono difficilissime da stimare. I diversi sostegni al reddito messi in campo per i lavoratori dipendenti e autonomi, circa 8 milioni di persone coinvolte, e la norma che vieta provvisoriamente i licenziamenti nelle imprese, consentiranno, anche per le statistiche, di contenere provvisoriamente la crescita dei disoccupati. Ma una quota significativa di questi potrebbe seriamente rischiare di perdere il lavoro in uscita dai sostegni al reddito.

Quello in corso non è paragonabile a uno stop and go dell’economia, ma è un processo destinato a generare profondi cambiamenti nelle strutture produttive e sull’occupazione.


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Queste considerazioni suggeriscono di ponderare seriamente le misure che dovranno essere adottate nei prossimi giorni per quella che viene definita come la fase due dell’emergenza sanitaria, e a impostare la fase tre, quella degli interenti finalizzati a favorire la ripresa dell’economia.

Il Governo ha prorogato le misure in essere fino al 3 maggio. Decisione comprensibile alla luce della lenta discesa delle contaminazioni e dei decessi, ma che andrebbe ponderata anche considerando le caratteristiche delle catene del valore che concorrono alla generazione e alla distribuzione dei prodotti e dei servizi indispensabili, siano essi materiali sanitari o generi di prima necessità. E che riguardano in particolare buona parte della industria manifatturiera italiana.


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L’esaurimento delle scorte di magazzino di derrate alimentari, semilavorati, imballaggi può generare conseguenze nefaste sulla distribuzione finale dei prodotti indispensabili. Queste attività sono certamente esposte al rischio di un contatto fisico tra lavoratori, analogamente a quelle dei servizi di distribuzione che rimangono aperti, ma un ragionevole allargamento delle maglie potrebbe essere consentito con l’adozione di rigorose misure di prevenzione concordate con le organizzazioni sindacali.

L’urgenza di affrontare il tema del reperimento dei lavoratori stagionali in agricoltura e di garantire i servizi a domicilio alle famiglie potrebbe suggerire la promozione di programmi straordinari di mobilitazione dei disoccupati, con incentivi alle imprese pari ai sussidi di sostegno al reddito. In questo modo si valorizzerebbero al meglio i sostegni pubblici e si contrasterebbe il lavoro sommerso.

I programmi di smart working promossi dalle pubbliche amministrazioni e dalle imprese private potrebbero essere ulteriormente incrementati per offrire servizi diretti agli utenti anche a supporto della distribuzione dei materiali di protezione e per rafforzare le misure finalizzate a tracciare la diffusione dei contagi.

Un ripensamento radicale delle politiche attive del lavoro, utilizzando i nuovi fondi messi a disposizione dall’Ue con il programma Sure favorirebbe la creazione di servizi rivolti a migliorare l’occupabilità dei lavoratori esposti al rischio di perdere il lavoro. Programmi che potrebbero offrire un notevole contributo all’impostazione della fase tre degli interventi, quella rivolta a favorire la ripresa economica individuando i comparti di attività che offrono grandi margini di crescita per l’occupazione: la sanità, le infrastrutture, l’istruzione, la digitalizzazione dei servizi, l’assistenza alle persone.

Per impostare la fase tre non bastano le risorse finanziarie, serve una visione. E questa, purtroppo, tarda a venire.

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