Immaginare il mondo che verrà

In questi giorni si fanno molte previsioni. Si cerca di immaginare il futuro, senza però aver chiaro il nostro presente e chi siamo

Non è la carta igienica, non è la farina per fare il pane in casa e neppure il gel igienizzante. Il prodotto principe di questa pandemia e dell’isolamento sono le previsioni, la descrizione del futuro. Quando i nostri amici ci mandano le foto della nostra città senza auto e piena di gente che corre o passeggia, pellegrini in cerca di libertà al primo sole di maggio, cominciamo a immaginare il mondo-che-verrà.  Consumiamo futuro perché non possiamo smettere di progettare, perché l’istante è diventato troppo incerto e convulso.



La predizione vuole costruire il domani con il materiale con il quale crediamo sia fatto il presente. Molte predizioni sono fatte con un’analisi astratte, poche con la vita concreta che abbiamo nelle nostre mani. Forse per questo continuiamo a pensare il mondo-del-dopo come una raccolta di propositi etici. Dopo lo stress post-traumatico, un maggior impegno nei lavori domestici, una vita più modesta, più attenta alla sostenibilità del pianeta, più capace di prescindere dal superficiale, più centrata sulla vicinanza, più resiliente, senza unghie artificiali, senza parrucchieri per cani, senza viaggi per il mondo per farsi selfie senza ricordare dove eravamo stati. 



È possibile che questi cambiamenti si verifichino, benché ci sia poco da sperare negli automatismi della condotta collettiva. I propositi sono fonte più di frustrazione che di creazione. In realtà, prima della severa crisi economica che stiamo cominciando a soffrire, dell’aumento del debito, della ridefinizione della globalizzazione, delle tensioni tra libertà e sicurezza, della tentazione del sovranismo e della sfida dell’innovazione (educativa e produttiva), ciò che conta è quanto ci siamo resi conto della sostanza di cui siamo fatti. Questa sostanza si rivela nelle relazioni: con gli altri, con noi stessi e con il mondo. Noi gente dei Paesi ricchi lavoreremo di più con il telelavoro e ricorreremo di più alla telemedicina. Ma la cosa decisiva è come ci concepiamo, cosa tutt’altro che teorica.



Già prima dello scoppio della pandemia erano proliferati “quelli-che-fuggono-dal-collasso”, quelli che vivevano con l’idea di mettersi in salvo da questo mondo moderno che si era affossato e dal quale bisognava fuggire, rifugiandosi in un’individualità isolata, in comunità spiritualmente (e persino economicamente) autosufficienti. L’impero è crollato, fuggiamo in campagna! Ora aumenteranno senza dubbio i sostenitori della sopravvivenza (negli Stati Uniti è triplicata la vendita delle armi) a qualunque prezzo! Disposti a chiudere il mondo, a teorizzare la rinuncia alle libertà. Per questo ciò che conta è se resta traccia e approfondimento di qualcuna delle intuizioni che, in alcuni momenti, sono apparse durante la pandemia (sono molto di più che un groviglio di interessi che alimentano il mercato, molto più che un buon contribuente, sono bisogno di compagnia, di significato, sono energia capace di compassione, di dono, sono domanda sul male e la morte, sono relazione con chi non conosco e con chi non ha la mia stessa cultura). Questo è il materiale più solido di fronte ai possibili cambiamenti. 

Ancora non sappiamo che sviluppo avrà la pandemia in America Latina e in Africa, ma in questo momento la sua diffusione coincide con le rotte aeree che vanno da Est a Ovest, con le grandi città aperte che uniscono la Cina agli Stati Uniti (passando per Milano e Madrid). È inevitabile una ridefinizione della globalizzazione, con una riduzione del commercio mondiale (che era già diminuito negli ultimi dieci anni). Probabilmente assisteremo a un cambiamento nelle catene di approvvigionamento, più organizzate per regioni che a livello mondiale. Ci saranno restrizioni nazionali e regionali su alcuni beni considerati strategici.

La globalizzazione che abbiamo avuto finora, nella quale il mondo asiatico stava prendendo il sopravvento, aveva dato per scontato che la libertà di circolazione, di persone e di capitali, accompagnata da alcuni valori occidentali, fosse sufficiente per tener il mondo collegato. Non c’era una globalizzazione dell’umano, un confronto sulla esperienza che dà significato in ogni cultura. Senza questo confronto, la ristrutturazione dei mercati per regioni non porta a un cambiamento sostanziale. La crisi economica, d’altro canto, verra risolta con più debito e con la deflazione che, per di più, dà potere ai creditori. Perché la finanza sia posta al servizio del lavoro è determinante avere una chiara coscienza di chi siamo.

Questa coscienza è anche un antidoto per il sovranismo di quelli che vogliono fuggire dal collasso, rende possibile il realismo di riconoscere che senza l’Unione europea (malgrado la sua ottusa reazione iniziale, le pressioni contro il Sud di paradisi fiscali come l’Olanda) la “mistica delle frontiere”ci condanna alla povertà.

Si dovrà anche avere ben presente la sostanza di cui siamo fatti (esigenza di libertà) quando i predicatori del modello cinese ci raccontano che le società che rinunciano ai loro diritti sono più efficaci e sicure. Corea del Sud, Taiwan, Giappone e a suo modo Hong Kong, hanno affrontato meglio la pandemia perché sono Paesi molto lontani dalle pratiche totalitarie-autoritarie di Xi Jinping. Il futuro è fatto di ciò che già siamo.


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