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Home » Politica » Giustizia » CDM GIUSTIZIA/ Ecco perché il compromesso con M5s danneggia la riforma

  • Giustizia
  • Politica

CDM GIUSTIZIA/ Ecco perché il compromesso con M5s danneggia la riforma

Corrado Limentani
Pubblicato 30 Luglio 2021 - Aggiornato alle ore 10:00
Marta Cartabia, ministro della Giustizia (LaPresse)

Marta Cartabia, ministro della Giustizia (LaPresse)

Trovato l'accordo in Cdm sulla riforma del processo penale. Come sempre accade per le soluzioni di compromesso, l'impianto della riforma ne soffre

Come è ormai noto, la riforma Cartabia prevede che la prescrizione si blocchi con la sentenza di primo grado e che tra la sentenza di primo grado e quella di appello non possano trascorrere più di due anni. Gli anni diventano tre per processi gravi e complessi. Precisi termini perentori sono stabiliti anche per il giudizio in Cassazione. Se questi tempi non vengono rispettati scatta l’improcedibilità e la sentenza di condanna (o di assoluzione) di fatto viene annullata.


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Queste disposizioni, secondo la riforma, non valgono per i reati punibili con l’ergastolo (e quindi per i cosiddetti reati di sangue) per i quali il processo può durare all’infinito senza incorrere in sanzione processuale alcuna.

I Cinquestelle hanno contestato questa impostazione ritenendo necessario includere tra i delitti per cui il processo può durare all’infinito anche i cosiddetti reati di mafia.


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Alla fine, dopo estenuanti trattative, è stato trovato l’accordo che accontenta tutti.

Il testo preciso degli emendamenti decisi nel Consiglio dei ministri di ieri non è ancora noto, ma le nuove (ultime, si spera) modifiche sembrano essere queste: per i procedimenti per associazione a delinquere di stampo mafioso (il famoso 416 bis), violenza sessuale sui minorenni e associazione a delinquere ai fini di spaccio di droga potranno essere disposte dai giudici proroghe infinite, mentre viene alzato fino a sei anni (che scendono a cinque dal 2025) il tetto di durata massima dei processi di appello per i delitti aggravati dal metodo mafioso.


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Le modifiche concordate accontentano e scontentano tutte le parti, come sempre accade per le soluzioni di compromesso.

L’impianto della riforma un po’ ne soffre. Era proprio necessario allungare i termini massimi di durata dei processi per i reati più gravi?

Occorre ricordare che il ministro ha già programmato il rafforzamento delle cancellerie con la creazione dell’Ufficio del processo e 16.500 nuove assunzioni e dell’organico di magistratura (un concorso è in dirittura d’arrivo ed un altro è programmato per la fine dell’anno): per il prossimo futuro non ci dovrebbero essere quindi problemi di organico che possano impedire una maggiore produttività.


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Non c’è poi alcun rischio di cancellare condanne per i processi in corso, in quanto le nuove norme varranno solo per i reati commessi prima del gennaio 2020.

Inoltre i reati più gravi, di norma, sono celebrati a carico di imputati detenuti per i quali già ora vigono rigorosi e stringati termini di durata massima di custodia cautelare calibrati proprio sulla durata del processo, termini che se non rispettati determinano la scarcerazione. Ebbene: i casi di scarcerazione per decorrenza di questi termini sono non rari, ma rarissimi. Quindi il rischio di eccessiva durata dei relativi processi è puramente teorico.


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Inoltre non vi sono validi motivi per cui solo chi è perseguito per fatti lievi possa contare su un processo da celebrarsi in tempi ragionevoli, mentre per chi sia imputato di reati gravi il processo può avere durata molto più lunga, in alcuni casi infinita.

In realtà è proprio chi è accusato di reati particolarmente gravi che dovrebbe avere la certezza di ottenere giustizia il più rapidamente possibile per eventualmente scrollarsi di dosso tutte le pregiudizievoli conseguenze delle accuse che gli sono mosse o, se colpevole, per arrivare a scontare la giusta pena in epoca la più prossima possibile a quella della commissione del reato.


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Non bisogna dimenticare che il nostro ordinamento è fondato sul  fondamentale principio della presunzione di innocenza: fino a quando non interviene una sentenza definitiva di colpevolezza (e cioè dopo l’appello e la cassazione) una persona è da considerarsi innocente e quindi quanto più grave e infamante è il reato contestato, quanto prima l’incolpato deve ottenere giustizia.

E questo vale anche per le delle vittime dei delitti più gravi che vantano il sacrosanto diritto a che sia loro riconosciuto il giusto risarcimento in tempi ragionevoli.

Quindi non appare ultroneo affermare il principio per cui quanto più il reato di cui sei accusato è grave ed infamante, tanto più hai diritto ad essere giudicato celermente.

Da qui il senso dell’ulteriore modifica normativa della riforma Lattanzi secondo cui si dovrà prevedere che “nell’ambito dei criteri generali adottati dal Parlamento, gli uffici giudiziari, previa interlocuzione tra uffici requirenti e giudicanti, predispongano i criteri di priorità nell’esercizio dell’azione penale e nella trattazione dei processi, tenuto conto della specifica realtà criminale e territoriale, nonché del numero degli affari e delle risorse disponibili”. Insomma siano le diverse autorità giudiziarie territoriali a decidere i calendari dei processi e, naturalmente, diano la precedenza ai reati più gravi.

L’auspicio, quindi, è che nell’inevitabile necessità di trovare una soluzione di compromesso che inevitabilmente la politica impone, la riforma venga infine approvata in ossequio a quei principi fondamentali a cui la stessa si ispira: che tutti i processi, anche quelli per i reati più gravi, vengano celebrati in tempi ragionevoli a prescindere dai termini massimi fissati dalle norme in approvazione.

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