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Home » Lavoro » POLITICHE ATTIVE/ Perché in Italia non funzionano bene?

  • Lavoro

POLITICHE ATTIVE/ Perché in Italia non funzionano bene?

Francesco Giubileo
Pubblicato 27 Aprile 2022
europa_ue_commissione_bandiere_lapresse_2015

LaPresse

Le politiche attive del lavoro in Italia non hanno mai dato i risultati sperati. Ciò dipende anche dalle risorse che vengono utilizzate

Dentro al funzionamento e alla realizzazione delle politiche attive del lavoro in Italia c’è un problema, si tratta forse della causa principale del perché in questo Paese tali politiche hanno spesso disatteso e mancato i risultati prefissati. È purtroppo è anche il motivo per cui il Programma GOL appare segnato da un sicuro insuccesso. 


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La Garanzia per l’occupabilità (GOL) parte da presupposti a mio avviso sicuramente innovativi e migliorativi rispetto al passato: si è cercato di risolvere alcune criticità nella profilazione viste nel programma Garanzia Giovani; avviene durante il pieno potenziamento dei Centri per l’impiego (seppur illogica appare l’intenzione del Governo di terminare la collaborazione con i Navigator, proprio nel momento in cui servirebbe di più per la fase di attuazione del programma); prevede percorsi di alfabetizzazione digitale; e infine per la prima volta non c’è stata quel livello di conflittualità tra Stato e Regioni visto in altre occasioni.


I NUMERI/ “In Italia ceto medio dimezzato in 20 anni (35%), il 74% dei giovani non vede opportunità”


A questo punto c’è da chiedersi perché lo strumento sia destinato sicuramente al fallimento. È molto semplice, la risposta fa riferimento alla natura del suo finanziamento: come la totalità delle politiche attive del lavoro in Italia, queste sono vincolate alle risorse comunitarie.

Dipendere totalmente da fondi comunitari (Fse o Pnrr è la stessa cosa) significa finire innanzitutto in un “ginepraio” amministrativo/burocratico di dimensioni titaniche. A ciò si aggiunge che il rispetto dei principi e regolamenti europei (i quali puntano a principi certamente condivisibili, ma al tempo stesso “utopistici” da raggiungere), obbliga a costruire norme nazionali e regionali che devono fare il triplo salto carpiato con avvitamento laterale per rispettare tutti i parametri richiesti. Un sistema talmente complesso che obbliga l’apparato pubblico, in alternativa si tratterebbe di funzionari della Nasa, a ricorrere a una montagna di consulenze tecniche per la realizzazione, il monitoraggio e la rendicontazione di tutte le attività. 


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Un sistema di questo genere, dove i fondi europei definiscono specifiche raccomandazioni di cosa rientra nelle spese ammissibili, si scontra con la retorica di avere meccanismi “locali” (regionali o provinciali) in grado di sviluppare politiche adatte alle necessità territoriali. In altri termini, se da Bruxelles decidono come devi spendere i soldi nei minimi dettagli, i margini di manovra sono pari a zero. Basta guardare i vari modelli regionali, cambia il modello di governance, ma alla fine la “sostanza” degli interventi è più o meno la stessa, vincolata a un processo di sperimentazione perenne e dai noti “costi standard” che compromettono il termine “personalizzazione” del patto di servizio stipulato con l’utente.

È necessario ripensare alle politiche attive attribuendo risorse dalla spesa corrente (si sono trovati i soldi per il superbonus 110% e Quota 100!) e non vincolandole ai fondi comunitari: questo permetterebbe di semplificare la rendicontazione e modellare meglio gli interventi in progetti locali che offrono all’utenze e anche agli operatori coinvolti una garanzia di continuità certa. 

Questo faciliterebbe un secondo fattore che è sempre inerente ai fondi comunitari. Oggi, nel 2022, dobbiamo chiederci perché è stato “creato” il Fondo sociale europeo. Certo per “armonizzare” enormi disparità territoriali dentro la comunità europea ed è per questo che si investono moltissime risorse in percorsi di qualificazione e accompagnamento al lavoro, ma è opportuno sottolineare un secondo concetto (almeno per chi scrive fondamentale), cioè la vera utopia alla base dell’Unione europea, ovvero creare una forza lavoro europea. In altre parole, creare la possibilità (grazie al supporto dell’attore pubblico) per tutti i cittadini di poter lavorare in qualsiasi città d’Europa. Utopia che ritroviamo nell’iniziativa Eures, ma andrebbe rafforzata con strumenti di sostegno alla mobilità occupazionale attraverso per l’appunto il Fondo sociale europeo.

Evitando facili fraintendimenti, qui non si parla dell’attuale offerta, ovvero qualche “spicciolo” per un migliaio di persone l’anno: chi scrive vede un’opportunità per almeno 100mila persone che ricevono un supporto economico commisurato a garantire una prima stabilizzazione all’estero.

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