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Home » Economia e Finanza » Economia Internazionale » Fed & Dollaro » INFLAZIONE USA/ Se la Casa Bianca ha più poteri della Fed per combatterla

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INFLAZIONE USA/ Se la Casa Bianca ha più poteri della Fed per combatterla

Giovanni Ricci
Pubblicato 13 Novembre 2023
Il presidente della Fed, Jerome Powell. Alle sue spalle Joe Biden (LaPresse)

Il presidente della Fed, Jerome Powell. Alle sue spalle Joe Biden (LaPresse)

C'è attesa per il dato sull'inflazione Usa di settembre, ma è sempre più chiaro che la discesa dell'indice non dipende solo dalle scelte della Fed

Martedì verrà diffuso il dato tendenziale annuo dell’inflazione Usa riferito al mese di ottobre. Nel presente intervento si stima un tasso del 4% con un intervallo al minimo del 3,7%; tutto questo dovuto alla permanenza del prezzo del petrolio al barile Wti sempre sopra gli 85 dollari medi e non superiore di fatto a un 91 dollari medio come livello massimo, fino alla fine di ottobre circa. Inoltre, va registrata oramai una persistenza del deficit federale nell’intorno del 6,5% da 2 o 3 anni a questa parte, complici tutti gli eventi straordinari accaduti in tale ambito temporale; quello che qui interessa, però, è la loro ricaduta macroeconomica, in particolar modo per la questione inflattiva che trascina con sé tassi di interesse, debito pubblico e Pil.


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In presenza di un debito pubblico statunitense oramai giunto a 33.450 miliardi di dollari circa e con spinte sempre più veloci alla sua crescita date da un insieme di fattori che hanno la loro genesi e la loro rappresentazione nel disavanzo prima mostrato, diviene essenziale comprendere quali sono i pericoli derivanti dal fatto innalzare continuamente i tassi di interesse per arginare il fenomeno inflattivo; senza dubbio la situazione è complessa, in quanto ci troviamo oramai vicino ai pericoli di una spirale tassi interesse-debito pubblico che può divenire incontrollata, avendo a riferimento l’equazione differenziale di Solow sulla sostenibilità del debito pubblico.


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Senza avventurarci nella dimensione matematica della questione, si può affermare nella sostanza che per aversi sostenibilità del debito pubblico di lungo periodo, il tasso di crescita reale del Pil deve essere superiore al tasso di interesse rappresentativo del mercato obbligazionario, ove questa funzione è di fatto assolta dal Treasury a 10 anni; in seconda battuta, o meglio detto come obiettivo sub ottimale, si dovrebbe perlomeno avere che il tasso di crescita nominale del Pil, e cioè comprensivo di inflazione, sia pari o superiore ai tassi di interesse, cosa che tra le altre è proprio quella che stanno sperimentando gli Usa.


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Ma questa come detto è una condizione sub ottimale che dura finché dura la tenuta di certi aggregati di stock, dove uno dei più importanti è lo stesso risparmio privato, dato che la presenza di inflazioni, già tra il leggero e il moderato, ha un’azione molto negativa su tale stock, per non parlare poi dei sicuri disavanzi delle partite correnti. In buona sostanza, un tasso di crescita nominale del Pil superiore ai tassi di interesse è una condizione quasi ottimale in presenza di bassi debiti pubblici, inferiore cioè solo alla migliore condizione del tasso reale di crescita del Pil, ma in presenza, invece, di alti debiti pubblici, come il caso attuale degli Usa, tale condizione aiuta ad alleggerire e di molto il debito dello Stato in termini di risorse reali, ma di fatto, in sostanza, è come se si prendesse solo tempo, mano a mano che le problematiche si sommano a se stesse.

Inoltre, va osservato che a un tasso di interesse di mercato – parametrato come già detto dal Treasury a 10 anni – che giungesse in area del 7,5% verrebbe aperta la strada alla spirale tassi interesse-debito pubblico che andrebbe fuori controllo; comunque, non si è lontanissimi oramai da tale situazione, sebbene non del tutto vicini, essendo i tassi a 10 anni in un’area che ha un massimo del 5%.

Per tali motivi, ad esempio, Powell l’attuale Presidente Fed non ha la leva piena – al di là di tanti altri aspetti più fondamentali dell’attuale fenomeno inflattivo – dello strumento tasso di interesse, in quanto a differenza del presidente Fed Volcker degli anni ’80, si trova ad avere di fronte un debito pubblico anche 6 o 7 volte superiore nei valori assoluti nominali.

Tassi di interesse che salgono in maniera sempre più accentuata non fanno altro che aumentare le perdite di bilancio appostate in conto capitale, sicuramente di tutte le aziende quotate a Wall Street, oltre che ovviamente per l’intero settore finanziario a stelle e strisce.

In aggiunta, dato il fatto che l’attuale fenomeno inflattivo è causato al 65% circa dalle oscillazioni di prezzo del fattore petrolio, con i tassi di interesse si dovrebbe già di per sP insistere solamente sul residuo delle cause, dove va poi rimarcato che i disavanzi così alti federali non fanno altro che annacquare e di molto la stretta sui tassi di interesse.

Lo si ricorda ancora una volta, che in un mondo senza disavanzi pubblici permanenti ogni operatore privato, sia esso imprenditore che consumatore, è sottoposto a un vincolo di bilancio temporale, che in altro modo detto significa che ogni operatore ha un tasso di interesse col quale esce fuori dal mercato sia dei consumi che degli investimenti; quindi se all’operatore x, che con un tasso Fed del 4% si attesterebbe fuori dalla domanda di consumi e investimenti, si danno fondi aggiuntivi in anticipo, tale operatore torna sul mercato e vanifica di molto gli sforzi di contenere la domanda.

Non a caso – notizia di qualche settimana fa – è il tentativo della Casa Bianca di poter far ritornare sul mercato mondiale dei produttori di petrolio il Venezuela, sospendendo le sanzioni finanziarie ed economiche nei suoi confronti, avendo come ulteriore partita di cambio l’espletamento di libere elezioni sotto controllo di osservatori internazionali.

In sostanza, la leva attuale per combattere l’inflazione attuale degli Usa è la discesa del prezzo internazionale del petrolio, aspetto sul quale la Fed non può intervenire, e quindi solamente nella possibilità del potere esecutivo della Nazione; ma è solo una possibilità in quanto le situazioni non si sbloccherebbero con decreti presidenziali autonomi, bensì tramite complesse trattative internazionali.

Tanto per dare l’idea di ciò di cui parliamo, si deve far mente al fatto che se il Venezuela implementasse gli investimenti estrattivi medi dei Paesi produttori di petrolio, tempo 4 o 5 anni arriverebbe ad avere una produzione giornaliera di circa 8 milioni di barili, quindi solamente di poco sotto a quella di Usa, Arabia Saudita e Russia, tenendo poi a mente che il petrolio venezuelano è di una delle migliori qualità mondiali, con alto tenore di ottani potenziali e poche impurità.

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Tags: InflazioneEconomia USA

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