L’Amministrazione Biden e il Presidente venezuelano Maduro hanno trovato un accordo secondo cui gli Stati Uniti allenterebbero le sanzioni sull’industria petrolifera del Venezuela, mentre il Paese caraibico permetterebbe elezioni libere consentendo un controllo internazionale. La notizia è stata data lunedì dal Washington Post. L’Amministrazione Biden aveva già intrapreso passi in questo senso, senza alcuna contropartita politica, all’inizio dell’anno quando aveva autorizzato la società americana Chevron a esportare petrolio dal Venezuela agli Stati Uniti dopo quattro anni di pausa.
Il Venezuela ha bisogno di far ripartire la propria industria petrolifera dopo almeno un decennio di sotto-investimenti e di sanzioni internazionali iniziate già sotto la presidenza del predecessore di Maduro. Per il Paese sudamericano le esportazioni di oro nero sono vitali.
Gli Stati Uniti sembrano in una condizione differente perché negli ultimi dieci anni sono diventati il maggiore produttore di idrocarburi insieme ad Arabia Saudita e Russia. In realtà, le cose sono più complicate. Le raffinerie complesse, come quelle che si trovano nei Paesi sviluppati e negli Stati Uniti, hanno bisogno di petrolio pesante per produrre raffinati. Anche ipotizzando un aumento esponenziale di petrolio leggero, come lo shale oil, il problema di come alimentare le raffinerie che servono il mercato americano rimarrebbe. Oltretutto non solo non si costruisce una raffineria nuova da decenni, ma la capacità di raffinazione americana si è dimezzata in alcune regioni. Nel 2009 la costa orientale americana poteva raffinare 1,64 milioni di barili di petrolio al giorno, oggi solo 818mila. Senza petrolio pesante le raffinerie americane si fermano e il risultato dovrebbe essere autoevidente anche nei suoi aspetti sociali e politici.
Il Venezuela non è l’unico produttore di petrolio pesante. In parte lo è il Canada, ma tra il Paese di Trudeau e quello di Biden ci sono vincoli infrastrutturali che limitano i flussi. Anche l’Iran è un produttore di petrolio pesante e questo potrebbe spiegare i ripetuti tentativi da parte americana di riaprire i canali soprattutto con l’arrivo della crisi energetica iniziata con l’invasione dell’Ucraina.
Dietro l’accordo di cui ha dato notizia il Washington Post c’è con ogni probabilità molta “realpolitik”. Nessuna Amministrazione americana si vuole trovare con i prezzi della benzina esplosi e nessun miracolo economico è possibile o nessun processo di re-industrializzazione è realizzabile se mancano benzina e diesel o se sono troppo costose. Prima di qualsiasi ambizione politica l’obiettivo è rimanere in vita economicamente.
Gli Stati Uniti decidono di accantonare le proprie divergenze politiche e diplomatiche e riaprono i commerci di petrolio con un Paese che si affaccia dall’altro lato del Golfo del Messico. In questo modo si isolano da potenziali sviluppi negativi in Medio Oriente e acquistano maggiore libertà di azione politica.
In queste settimane sono poi d’attualità analisi sulla sostenibilità della produzione di idrocarburi americana dati gli attuali livelli di prezzo forse non abbastanza alti, dopo l’esplosione dei tassi di interesse e dell’inflazione, per alimentare una nuova ondata di investimenti. Non sono analisi piacevoli dopo che nel 2022 l’Amministrazione Biden ha deciso di vendere quantità record di riserve strategiche facendole arrivare ai minimi dagli anni ’80. Qualsiasi crisi dei prezzi nel 2024 metterebbe il Presidente uscente in una competizione elettorale decisamente in salita.
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