Arrivano dei dati interessanti dal mercato del lavoro che sembrano smentire la narrazione che ne fa Maurizio Landini
Mentre Donald Trump svolgeva il primo Discorso sullo Stato dell’Unione del suo secondo mandato, alcuni parlamentari dell’opposizione democratica sollevavano una specie di racchetta da ping pong su cui era scritto “false”. Contestavano in questo modo le fake news presidenziali. Sarebbe utile che qualche volenteroso seguisse Maurizio Landini e, seduto tra il pubblico delle sue apparizioni televisive, trovasse il modo di far capire – a chi segue l’evento – che il Segretario generale della Cgil le sta sparando grosse.
L’impresa in cui è impegnato Landini, in questa fase, è la campagna a sostegno dei quesiti referendari sul lavoro che – a suo avviso – dovrebbero contrastare la “precarietà dilagante” e restituire dignità al lavoro martoriato da salari da fame. Peccato che la realtà non sia proprio come la descrivono in Corso Italia 25.
Negli ultimi anni – ha scritto Francesco Seghezzi a commento dei dati Istat – il mercato del lavoro dell’area dell’euro, e in particolare quello italiano, hanno vissuto trasformazioni significative, in gran parte influenzate dai cambiamenti demografici. Secondo un recente studio della Banca centrale europea, il tasso di disoccupazione ha raggiunto il livello più basso dalla nascita dell’euro, attestandosi al 6,3% nell’ottobre 2024. Questo calo, nonostante l’aumento della forza lavoro del 3,5% tra il 2021 e il 2024, suggerisce una stretta relazione tra le dinamiche demografiche e l’occupazione.
L’incremento della partecipazione al mercato del lavoro ha riguardato tre categorie principali: i lavoratori non Ue (+24,7%), i lavoratori più anziani (+9,9%) e quelli con istruzione terziaria (+7,9%). Queste componenti non solo sono cresciute in termini numerici, ma hanno anche mostrato tassi di partecipazione più elevati. Se prendiamo il caso italiano, nello stesso arco di tempo, l’andamento dei lavoratori anziani è leggermente superiore alla tendenza europea ed è su questa componente del mercato del lavoro che è interessante concentrarsi.
Sappiamo che gli over 50, nell’ultimo decennio, stanno prolungando la loro permanenza nel mercato del lavoro grazie a riforme pensionistiche (nel caso italiano la riforma Fornero che ha alzato a 67 anni l’età pensionabile), una maggiore domanda di competenze esperte e un generale miglioramento delle condizioni di lavoro che consentono una permanenza maggiore soprattutto in certi lavori e certe mansioni. Nel caso italiano il tasso di disoccupazione degli over 50 si distacca ancora di più dalla media generale (2,8% rispetto al 5,7%). Questo suggerisce anche un impatto di questa grande crescita di occupati over 50 su altri aspetti qualitativi del mercato del lavoro.
Uno di questi, sul quale ci si è giustamente concentrati molto, riguarda la forte crescita di occupati a tempo indeterminato. Se prendiamo l’andamento di questi occupati dividendolo per età scopriamo che, dal 2015 a oggi (terzo trimestre 2024), tra i 15 e i 34 anni i lavoratori a tempo indeterminato sono cresciuti di 493mila unità, tra i 35 e i 49 anni sono diminuiti di 629mila unità e in quella degli over 50 anni sono cresciuti di ben 1,88 milioni. In sintesi, gli occupati a tempo indeterminato sopra i cinquant’anni sono cresciuti quasi quattro volte in più di quelli sotto i 35 anni.
Certamente incide una storica concentrazione di contratti temporanei (peraltro in diminuzione) tra i giovani, ma non è sufficiente a spiegare un tale andamento per il quale l’invecchiamento della forza lavoro e la maggior permanenza nel mercato del lavoro restano le spiegazioni principali. Un ulteriore elemento che si lega a questa dinamica è la riduzione dell’inattività sul quale incide, appunto, l’allungamento delle carriere lavorative.
La crescita occupazionale – osserva poi Seghezzi – che deriva in larga parte dal permanere di persone over 60 nel mercato del lavoro, magari impiegati in mansioni che difficilmente riescono a svolgere come in passato o posti davanti a esigenze di riqualificazione professionale che non vengono affrontare, si traduce in effetti negativi sulla produttività con le conseguenze che ben conosciamo, in primo luogo sui salari. Questo dovrebbe interrogare, in uno scenario inedito per il nostro Paese di crescita forte di una certa fascia di occupati, su cosa significhi rendere sostenibile, sia in termini di attività svolte che in termini di competenze e aggiornamento professionale, il lavoro dei lavoratori più maturi.
Ma il sindacato pensa ad altro. Per Landini il mercato del lavoro rimane una notte in cui tutte le vacche sono nere.
Nei prossimi anni lo svuotamento della coorte anagrafica dei baby boomers avrà un forte impatto sul mercato del lavoro perché non verrà compensato da quelle successive, molto più ridotte come numero anche se con livelli di istruzione maggiori.
Questa dinamica dovrebbe fin da subito orientare le politiche del lavoro e le politiche dell’innovazione sia rispetto al rapporto tra flussi migratori e lavoro sia rispetto al ruolo che l’automazione può avere, senza timori, nella sostituzione di determinati lavori senza che tale dinamica sia totalmente nelle mani di chi sviluppa le tecnologie. In sostanza, se venissero accolte le proposte dei sindacati in materia di pensioni (anticipate) la crisi dell’offerta di lavoro diverrebbe ancora più grave.
A gennaio 2025, l’Istat attesta che il numero di occupati supera quello di gennaio 2024 del 2,2% (+513mila unità); l’aumento riguarda gli uomini, le donne, i 25-34enni e chi ha almeno 50 anni d’età, mentre per i 15-24enni e i 35-49enni si osserva una diminuzione. Ma su questo dato pesano i buchi della demografia in queste generazioni.
In sostanza non ci troviamo di fronte a un numero maggiore di disoccupati, ma molto più semplicemente a persone che non sono nate. Il tasso di occupazione, in un anno, sale di 1,0 punti percentuali. Rispetto a gennaio 2024, diminuisce sia il numero di persone in cerca di lavoro (-10,7%, pari a -194mila unità), sia quello degli inattivi tra i 15 e i 64 anni (-1,3%, pari a -158mila).
Se qualcuno si azzardasse a interrompere le arringhe di Landini (ormai una Madonna pellegrina dei programmi de La7) per fargli notare questi dati (abbiamo riconosciuto per primi l’incidenza dei flussi demografici), il nostro risponderebbe che i salari restano bassi (magari facendo riferimento alla vertenza contrattuale dei metalmeccanici). Eppure qualche cosa si muove anche in questo campo.
Adapt ha pubblicato fresco fresco un working paper a cura di Jacopo Sala e Silvia Spattini da cui emerge che il 2024 ha segnato una svolta per le retribuzioni contrattuali in Italia, con aumenti che finalmente hanno superato l’inflazione dopo anni di perdita di potere d’acquisto. Il recupero resta insufficiente: nel periodo 2019-2024, l’inflazione ha eroso i salari, portando a una perdita di potere d’acquisto pari al 7,1%.

Le cause di questo fenomeno sono principalmente due: da un lato, la straordinaria pressione inflazionistica che nel 2022 ha toccato il picco record dell’8,1% (livelli così elevati non si registravano dagli anni ’80); dall’altro, i ritardi nell’adeguamento delle retribuzioni all’inflazione, determinati sia dalla durata dei contratti collettivi – che non vengono aggiornati prima della scadenza -, sia dalle frequenti dilazioni nei processi di rinnovo contrattuale. Pertanto, sarebbe utile almeno una manutenzione della struttura contrattuale, che continua a dipendere in prevalenza dalla contrattazione nazionale di categoria.
L’industria ha registrato una ripresa più significativa rispetto al settore terziario, ma nessun comparto ha ancora colmato completamente il divario. La crescita salariale e stata trainata dai rinnovi contrattuali, che tuttavia non hanno ancora coinvolto tutti i lavoratori, lasciando scoperto oltre un terzo degli occupati del settore privato.
Le previsioni per il 2025 indicano un rallentamento della dinamica retributiva, con un incremento medio del 2,3% e un miglioramento reale contenuto, pari allo 0,5%. Il contesto contrattuale rimane complesso e frammentato, fondamentale è accelerare il processo di rinnovo dei contratti collettivi scaduti, per provare a recuperare la perdita di potere d’acquisto di altre fasce di lavoratori.

In conclusione, l’analisi condotta evidenzia il significativo miglioramento della dinamica retributiva registrato nel 2024, con un incremento delle retribuzioni contrattuali nel settore privato del 4% a fronte di un tasso di inflazione più contenuto e che ha determinando un aumento reale dei salari dopo anni di perdite. Questo trend favorevole è stato trainato soprattutto dal settore industriale e dal comparto del credito, mentre gli altri comparti del terziario hanno mostrato una ripresa più moderata.
Il meccanismo di adeguamento dei minimi tabellari all’inflazione, presente in alcuni contratti collettivi del comparto industriale, ha giocato un ruolo determinante, così come l’intensa stagione di rinnovi contrattuali che ha caratterizzato il settore dei servizi nel biennio 2023–2024.
Tuttavia, il divario tra crescita dei prezzi e incrementi salariali, seppur in riduzione, evidenzia l’esistenza di rigidità strutturali nel sistema della contrattazione collettiva che limitano la tempestività degli adeguamenti retributivi. Per il 2025, le previsioni indicano un miglioramento contenuto della dinamica retributiva, con un incremento reale delle retribuzioni stimato intorno allo 0,5%.
In tale contesto, diventa fondamentale accelerare i processi di rinnovo contrattuale per i numerosi lavoratori ancora in attesa di rinnovo (circa il 37% dei dipendenti del settore privato), al fine di estendere i benefici della ripresa a tutte le categorie di lavoratori e sostenere il recupero del potere d’acquisto.
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