Sono trascorsi 23 anni dall'omicidio di Marco Biagi, ma le sue idee sono più attuali che mai, anche su temi molto caldi
Ventitré anni fa, il 19 marzo del 2002, a Bologna veniva assassinato, sulla porta di casa, da un commando delle nuove Brigate rosse, Marco Biagi, Professore ordinario di Diritto del lavoro nella Facoltà di economia dell’Università di Modena e consulente del ministro del Welfare Roberto Maroni, incaricato dapprima di coordinare un gruppo di esperti per la redazione di un Libro bianco che contenesse le linee di una riforma del mercato del lavoro, e poi di curare la stesura di un disegno di legge delega che traducesse in norme quelle indicazioni.
I terroristi – come avevano fatto alcuni anni prima con Massimo D’Antona – avevano messo nel mirino della loro vigliaccheria non già politici illustri, ma loro collaboratori di alto profilo scientifico allo scopo di colpire le idee alla fonte e di far tacere una voce in grado di proporre soluzioni innovative ed eque. Nel caso di Marco Biagi, mio carissimo amico, sulle sue elaborazioni non è mai caduto il silenzio, non si è mai dispiegata la coltre dell’oblio.
Tante sono le iniziative in sua memoria: da parte della Fondazione di cui è animatrice la moglie Marina al centro studi di Adapt che, da Modena e Bergamo, forma giovani studiosi e diffonde (con una feconda attività editoriale e programmi di formazione) un’ampia cultura giuslavoristica sotto la direzione di Michele Tiraboschi, l’allievo prediletto a cui Marco affidò il compito di continuare il suo lavoro se i suoi timori si fossero avverati.
Basta scorrere i titoli e la qualità delle iniziative promosse anno dopo anno nei giorni della ricorrenza della sua uccisione per rendersi conto della attualità del pensiero di Biagi e della sua capacità di misurarsi con le questioni venute, di volta in volta, all’ordine del giorno nel mondo del lavoro, ma nello stesso tempo di essere all’altezza di continuare a confrontarsi con gli avversari di sempre spesso sui medesimi problemi.
Anche in questo XXIII appuntamento è aperto un dibattito su problematiche già presenti ed affrontate da Marco Biagi e da quelle correnti di pensiero che presidiarono il loro sviluppo (si pensi al rapporto di continuità tra il Libro bianco e il Jobs act), ma sempre contrastate dalle componenti di quella sinistra politica e sindacale che Tony Blair definiva reazionaria (oggi in campo con i referendum promossi dalla Cgil). In altre parole, mentre il Parlamento è prossimo a varare in via definitiva una legge sulla partecipazione dei lavoratori alla gestione delle imprese ai sensi dell’articolo 46 Cost., i quesiti della coppia Landini-Schlein rimangono prigionieri della mistica della precarietà, la cui predicazione continua imperterrita nonostante i cambiamenti intervenuti nella struttura dell’occupazione.
Partecipazione
Il tema veniva affrontato nel Libro bianco, senza soffermarsi troppo in tecnicismi giuridici, ma andando alla sostanza del suo significato nell’ambito delle relazioni industriali. L’esperienza comparata – era scritto nel Libro bianco – insegna che i modelli di relazioni industriali più partecipativi riescono a conferire maggiore competitività al sistema produttivo, pure nella grande varietà dei modelli adottati, sia che la legge assuma un ruolo centrale (Germania), sia che la partecipazione si fondi sulla prassi e la consuetudine senza alcuna interferenza di carattere regolatorio (Giappone).
Si ottengono risultati incoraggianti sul piano del miglioramento dell’efficienza organizzativa, riducendo le resistenze alle innovazioni tecnologiche, supportando le decisioni manageriali con una maggiore legittimazione e coinvolgendo i rappresentanti dei lavoratori in una logica di confronto che non esclude certo la possibilità di ricorrere al conflitto, ma privilegia la ricerca di soluzioni condivise in quanto hanno più facilità di essere implementate con successo.
La partecipazione è dunque un elemento costitutivo di un sistema di relazioni industriali basato sulla qualità, contribuendo positivamente a sostenere e qualificare lo sviluppo di un sistema economico nel suo insieme e delle singole imprese. Quanto alla ricerca e all’individuazione delle forme e delle modalità della partecipazione, il Libro Bianco anticipava l’impostazione della legge ora in discussione che non si avventura i vincoli legislativi nella governance delle imprese, ma lascia ampio spazio alla contrattazione.
La ricerca di soluzioni partecipative era quella delineata dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea che all’ art. 27 sanciva il diritto dei lavoratori all’informazione e alla consultazione nell’ambito della impresa (“Ai lavoratori ed ai loro rappresentanti devono essere garantite, ai livelli appropriati, l’informazione e la consultazione in tempo utile nei casi e alle condizioni previsti dal diritto comunitario e dalle legislazioni e prassi nazionali”).
La partecipazione dei lavoratori e dei loro rappresentanti nel quadro di un sistema di relazioni industriali, tanto a livello macroeconomico quanto su scala micro, concorre – concludeva il Libro Bianco – ad elevare la qualità del lavoro, accrescendo le potenzialità di sviluppo professionale e di carriera dei dipendenti, incidendo positivamente sulla loro motivazione, nella ricerca di un ambiente lavorativo fondato sul riconoscimento delle capacità personali e sulla valorizzazione delle aspettative individuali e collettive.
Un intervento anche di natura legislativa potrebbe precisare, valorizzando in proposito il ruolo della contrattazione collettiva, le modalità di sottoscrizione o acquisto di azioni nell’ambito di un piano di partecipazione finanziaria, prevedendo, ad esempio, anticipazioni sul trattamento di fine rapporto, l’impiego di quote o elementi della retribuzione, il ricorso al credito eventualmente attraverso l’intervento dei fondi pensione.
Risoluzione del rapporto di lavoro
Sappiamo bene che il quesito Cgil per l’abrogazione del Jobs act (dlgs n.23 del 2015) per come viene presentato è una truffa indecorosa, in quanto non è finalizzato a ripristinare gli effetti tradizionali dell’articolo 18 dello Statuto (la reintegra nel posto di lavoro in caso di illegittimità dell’atto), ma a rivitalizzare il suddetto articolo come novellato dalla legge n.92 del 2012. A questo proposito ricordiamo che Luigi Sbarra, ex Segretario generale della Cisl aveva espresso dei giudizi molto critici, mettendo in guardia dal rischio di riaccendere la battaglia sull’articolo 18, definendolo “anacronistico” e “foriero di tensioni e divisioni”.
Secondo Marco, il tema della fessibilità in uscita poteva essere affrontato anche su un altro versante; quello di una incisiva riforma dell’arbitrato in materia di lavoro, senza che ciò significasse svuotare il ruolo della magistratura. All’arbitro doveva essere assegnato soprattutto il potere di decidere in concreto sulla controversia che gli era sottoposta, tenendo conto di tutte le circostanze del caso (condizioni del mercato del lavoro locale, stato personale e familiare della persona licenziata, gravità dell’inadempimento contestato, ecc.) rispetto all’entità della sanzione da indirizzare al datore di lavoro qualora riscontri la non legittimità di un licenziamento. L’obbligo di reintegrazione ex articolo 18 Stat. Lav. sarebbe rimasto solo in caso di licenziamento discriminatorio e quindi viziato da nullità radicale.
Per il resto l’arbitro doveva potersi muovere come se avesse di fronte sempre una stabilità “obbligatoria” con la possibilità di condannare il datore di lavoro al pagamento di un’indennità monetaria che risarcisse adeguatamente il lavoratore dal danno subito.
Per essere ancora più esplicito Biagi manifestò queste sue idee in un articolo su Il Sole 24 Ore (nell’autunno 2001), dal titolo non equivoco “Licenziare per assumere” di cui si riproducono, di seguito, alcuni brani: «Si discute molto in questo periodo di riforma dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Probabilmente siamo giunti ad un punto di svolta per il diritto del lavoro. Sappiamo bene, a questo proposito, che il mercato del lavoro italiano vive una situazione di notevoli difficoltà.
La nostra struttura economica e la nostra organizzazione produttiva e del lavoro si sono evolute con velocità via via crescente. Ma a questa accelerazione non sempre si è accompagnata anche una modernizzazione delle regole dei rapporti di lavoro e delle relazioni industriali. Una delle priorità nella agenda della modernizzazione è certamente quella della flessibilità in uscita. Il nostro sistema è più rigido e antiquato di quello esistente in molti dei nostri partners europei.
Oltre a ciò è chiaro che se abbiamo un alto tasso di rigidità in uscita rispetto alla disciplina del lavoro subordinato standard, a tempo indeterminato e iperprotetto i nostri datori di lavoro ricorreranno sempre di più al lavoro flessibile (ai contratti a termine, al lavoro interinale, alle collaborazioni coordinate e continuative, ecc., quando non al lavoro “nero”)».
La mistica del precariato
Marco era convinto che la flessibilità dei rapporti di lavoro fosse un’esigenza ineludibile e che il compito del giurista fosse quello di definire delle regole a tutela del lavoratore. “Occorre prevedere – era scritto nel Libro bianco – nuove tipologie contrattuali che abbiano la funzione di ‘ripulire’ il mercato del lavoro dall’improprio utilizzo di alcuni strumenti oggi esistenti, in funzione elusiva o frodatoria della legislazione posta a tutela del lavoro subordinato, e che, nel contempo, tengano conto delle mutate esigenze produttive ed organizzative”. Portare una regola pertinente dove non c’era per Biagi era il solo modo per tutelare il lavoratore.
n un articolo pubblicato su Il Sole 24 Ore del 16 novembre 2001 Marco scriveva: “Se si vuole davvero iniziare una lotta senza quartiere al lavoro irregolare, bisogna disporre di tutti gli strumenti idonei allo scopo: per stanare gli irriducibili del lavoro nero occorrono tutte le armi, anche le più sofisticate”.
Per Biagi era necessario trovare forme regolate e regolari per l’inclusione sociale, nella consapevolezza che la pretesa di assumere solo attraverso rapporti di lavoro stabile si trasformerebbe, al di là delle intenzioni, in una preclusione, perché per divenire occupati occorre essere prima di tutto occupabili. La flessibilità “normata” costituiva il nucleo centrale del suo pensiero. Il mestiere primario del giurista – secondo Biagi – era quello di portare il diritto e le regole dove non ci sono.
Si può discutere sul contributo effettivo che il filone riformatore, da Biagi in poi, ha recato al mercato del lavoro. Una cosa però è certa: tutti i tentativi di riportare indietro la storia hanno determinato effetti nefasti sull’occupazione. Quando i sindacati durante la pandemia ottennero dal Governo giallo-rosso il blocco dei licenziamenti furono persi ben 900 mila posti di lavoro soprattutto di giovani e donne.
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