Myanmar: la giunta militare spende solo per l’esercito, la Cina pensa di prendere il potere. La gente e la tragedia del terremoto arrivano dopo
Cresce di ora in ora il bilancio delle vittime del terremoto di venerdì che ha messo in ginocchio il Myanmar (l’ex Birmania), un dramma che si interseca con le condizioni critiche del Paese, sconvolto da anni di guerra civile e che potrebbe essere il colpo di grazia per la giunta militare al potere.
Molti commentatori sottolineano infatti come il governo appaia del tutto impotente a controllare anche questa emergenza, essendosi dato come priorità quella di continuare la lotta nelle varie province che si sono ribellate al regime di Yangoon.
Il Myanmar è in una situazione catastrofica, tagliata fuori dagli aiuti e anche dall’attenzione internazionale, visto che la gran parte dei Paesi stranieri non ha riconosciuto lo giunta militare riducendo al minimo la presenza diplomatica.
Anche per questo già da tempo gli aiuti umanitari vengono centellinati nel timore che finiscano nelle mani delle forze governative ed oltretutto non si possono neppure avviare facilmente aiuti verso il Myanmar visto che ufficialmente le frontiere sono chiuse.
Da mesi – ancora ben prima del terremoto – le importazioni di medicinali sono per esempio contingentate e tutte le risorse sono destinate a sostenere l’esercito, che in molte parti del Paese è comunque visibilmente sulla difensiva e quindi moltiplica i suoi sforzi terrorizzando la popolazione civile.
Una situazione insostenibile, nella quale la Cina è, almeno fino ad ora, l’unico e vero sponsor dei militari. Pechino, tuttavia, forse approfittando anche del peggioramento della situazione generale per il terremoto, potrebbe meditare il “colpo grosso”, ovvero di assumere più direttamente il potere con qualche suo governo-fantoccio.
Ultimamente però la giunta militare ha “aperto” anche alla Russia, cercando di controbilanciare i rapporti. Un gioco molto pericoloso.
La situazione è resa ancora più difficile dal moltiplicarsi degli scontri interetnici, dal fallimento dell’accordo che alcuni mesi fa aveva permesso al governo di allearsi con alcuni gruppi ribelli trasformando la guerra in un conflitto interreligioso e sfruttando le antiche rivalità e gli odi tra le diverse etnie del Paese.
Il terremoto ha messo in luce una spaventosa mancanza di soccorsi, ma gli osservatori internazionali hanno preso atto che nemmeno in questa circostanza i vari componenti della giunta militare si sono mostrati in pubblico o a dirigere i soccorsi, il che è stato giudicato come un segnale delle difficoltà interne che stanno attraversando e della loro debolezza, mentre è encomiabile il senso di solidarietà reciproca che attraversa la nazione nelle sue classi più povere.
Mentre il regime ha aumentato massicciamente la spesa militare investendo in aerei, droni e armamenti per colpire ribelli e organizzazioni armate, la popolazione civile è rimasta abbandonata a stessa. I pochi filmati che escono dal Myanmar (whatsapp è vietata, internet sottoposta a censure e limitazioni) mostrano feriti abbandonati insieme ai cadaveri con la gente che scava a mani nude tra le macerie senza mezzi, ambulanze, soccorsi organizzati.
D’altronde lo stesso regime, di solito sprezzante con l’estero, questa volta non ha esitato a chiedere aiuto. Una necessità dove si legge appunto anche la debolezza di una giunta militare detestata non solo dalle minoranze etniche, da oltre settant’anni in lotta con il governo centrale, ma ora anche da gran parte dei bamar, l’etnia maggioritaria birmana di fatto al potere dal 1948.
Nessuno sa quante siano state le vittime dei vari genocidi interni, ma si parla di decine di migliaia di morti per la violenza con cui il tatmadaw, cioè l’esercito, ha cercato di spegnere le rivolte. Un esercito peraltro in crisi, perché costretto a reclutare soldati con la forza che – se non muoiono al primo scontro – spesso passano poi dalle parti dei ribelli. Ci sono milioni di rifugiati interni, nel Paese non si può viaggiare e la violenza è quotidiana.
La giunta militare ha perso il controllo di metà del territorio e di gran parte dei confini da cui tutti i giovani cercano di scappare, sia verso la Thailandia che il Bangladesh, anche se spesso vengono intercettati ed uccisi.
Ora sembra che il regime non possa più contare neppure sull’aiuto del “grande fratello” cinese. Nel 2021 Pechino accettò il ritorno al potere dei militari guidati dal generale Aung Hlaing seguito dall’immediata incarcerazione di Aung San Suu Kyi, figlia del padre della patria Aung San e donna simbolo della democrazia birmana. Dietro il tacito assenso alle mosse di Aung Hlaing c’era il timore che un “eccesso” di democrazia regalasse spazio agli Stati Uniti, ma oggi Pechino medita probabilmente di prendere in mano le redini del Paese non potendo contare sui fantocci locali.
L’obiettivo cinese è quello di sempre: riuscire ad affacciarsi direttamente sul Golfo del Bengala, controllando così i terminali petroliferi e il gasdotto collegati alla provincia dello Yunnan, indispensabili – in caso di scontro con gli Usa e chiusura dello stretto di Malacca – a garantire i rifornimenti energetici del Golfo Persico.
Ora la fragilità del Paese dovrà fare anche i conti con le conseguenze del terremoto più forte della sua storia, che ha ridotto il Myanmar alla disperazione tra migliaia di morti e violenze quotidiane.
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