Nel "Silmarillion" Tolkien spiega la sua concezione della creazione artistica: un canto di gloria per la bellezza ricevuta. Che Michelangelo condivide (3)
In quella che è l’opera mitopoietica sull’origine del mondo più straordinaria dopo l’antichità, Il Silmarillion, Tolkien racconta della creazione del mondo ad opera di Dio (chiamato Eru) di concerto con le figure angeliche degli Ainur, chiamati poi Valar in seguito al loro ingresso in Arda, il reame creato. Ad ogni Ainu è preposto un potere e un regno, ed essi collaborano alla creazione sviluppandola come una sinfonia in armonia con il pensiero di Eru, detto anche Ilúvatar, e preparando il mondo per la venuta dei Figli di Ilùvatar – gli Elfi e gli Uomini – e proteggerli da Melkor, il potente Angelo Caduto, che sarà poi chiamato Morgoth, l’Oscuro Nemico del mondo.
Ad uno dei Valar, preposto alla custodia e trasformazione di tutto ciò che è “ctonio” (minerali e ricchezze della terra) sorge il desiderio, venato di impazienza, di condividere le meraviglie di Arda con esseri dotati di intelletto:
“Si narra che i Nani furono inizialmente creati da Aulë nell’oscurità della Terra di Mezzo; Aulë desiderava, infatti, tanto ardentemente l’avvento dei Figli, così da potere avere degli allievi a cui insegnare la propria sapienza e le proprie arti, da non voler attendere il compimento dei disegni d’Ilúvatar. E Aulë creò i Nani così come essi sono tuttora, perché le forme dei Figli che dovevano venire non erano chiare nella sua mente e perché il potere di Melkor si estendeva ancora sulla Terra; ed egli desiderava quindi che essi fossero forti e inflessibili. Ma, temendo che gli altri Valar potessero biasimarne l’opera, li plasmò in segreto: ed egli fece per primi i Sette Padri dei Nani in un’aula sotto le montagne della Terra di Mezzo.
[…] E la voce di Ilúvatar gli disse: ‘Perché hai fatto questo? Perché hai tentato ciò che sai trascendere il tuo potere e la tua autorità? Che tu hai avuto da me quale dono il tuo proprio essere soltanto, e null’altro; sicché le creature della tua mano e della tua mente possono vivere soltanto grazie a tale essere, muovendosi quando tu pensi di muoverle e, quando il tuo pensiero sia altrove, giacendo in ozio. È dunque questo il tuo desiderio?’. Allora Aulë rispose: ‘Non desideravo un siffatto dominio. Desideravo cose diverse da me, da amare e ammaestrare, sì che anch’esse potessero percepire la bellezza di Eä, da te prodotta. Mi è parso infatti che in Arda vi sia spazio sufficiente per molte creature che in essa possano gioire, eppure Arda è perlopiù ancora vuota e sorda e nella mia impazienza sono caduto preda della follia. Ma la creazione di cose è nel mio cuore per come sono stato creato da te; […] Ma cosa farò ora io affinché tu non resti in collera con me per sempre? Come un figlio a suo padre ti offro queste cose, l’opera delle mani che tu hai creato. Fanne ciò che vuoi, ma non è forse meglio che io distrugga l’opera della mia presunzione?’. E Aulë sollevò il grande martello onde colpire i Nani; e pianse.
Ma Ilúvatar provò compassione per Aulë e il suo desiderio, a cagione della sua umiltà; ed i Nani indietreggiarono di fronte al martello ed ebbero paura, e chinarono il capo implorando misericordia. E la voce di Ilúvatar disse ad Aulë: ‘Ho accettato la tua offerta dal momento stesso in cui ne hai creato l’oggetto. Non vedi che queste creature hanno vita propria e che parlano con voci proprie? Altrimenti non si sarebbero ritirati davanti al tuo colpo, né ad alcun comando della tua volontà’. E allora Aulë lasciò cadere il martello e fu lieto, e rese grazie a Ilúvatar dicendo: ‘Che Eru benedica la mia opera e la perfezioni’” (cfr. J.R.R.Tolkien, Il Silmarillion, cap. II, “Aulë e Yavanna”).
Ci troviamo di fronte a una scena potente. La creatura scopre in sé l’immagine del Creatore: “Ma la creazione di cose è nel mio cuore per come sono stato creato da te”; e accingendosi ad imitarlo rischia di peccare di presunzione, di impazienza, per una irrefrenabile voglia di condividere l’essere. Ma il suo tentativo è accolto, ancor prima che la creatura si renda conto e si penta dell’aver involontariamente (per ignoranza) creato cose che non avrebbero avuto vita propria. Il cuore aveva già parlato chiaro agli occhi di Dio: “Desideravo cose diverse da me, da amare e ammaestrare, sì che anch’esse potessero percepire la bellezza di Eä, da te prodotta”. Egli desidera che ciò che è creato sia diverso da sé, abbia vita propria, abbia un certo grado di libertà dal suo creatore. Ed ecco allora la vera opera d’arte, che non può nascere senza un “io” che la ponga in essere ma contemporaneamente possiede un proprio destino che entra in dialogo con il destino delle creature libere. Non è una emanazione, una espansione, un’appendice dell’io.
Ma c’è un altro aspetto dell’uomo autenticamente sub-creativo, come si esprime Tolkien, cioè creatore di secondo grado, creatore di ciò che è ancora solo in potenza (poiché il mondo si manifesta gravido di possibilità inedite al contatto con la libertà e l’amore della creatura).
Il secondo aspetto potrebbe portare il nome di restituzione gratuita. Tra i Primogeniti di Ilúvatar, gli Elfi, spicca per grandezza e tragico destino Fëanor, che significa letteralmente “Spirito di Fuoco”. Egli è l’altra grande figura di creatore, di artefice nella Terra di Mezzo all’inizio dei suoi giorni. Egli è colui che crea le tre gemme attorno a cui ruoterà il destino del mondo, i Silmaril:
“[…] Fëanor infatti, giunto alla pienezza del proprio vigore, era tutto preso da un nuovo pensiero, ma può anche essere che abbia preavvertito un’ombra della sorte che s’avvicinava; e rifletteva su come conservare imperitura la luce degli Alberi, gloria del Reame Beato. Diede allora mano a un lungo e segreto lavoro, facendo appello a tutta la propria sapienza, potenza e sottile abilità, e alla fine, ecco che produsse i Silmaril. I quali erano, quanto a forma, come tre grandi gioielli.
Solo alla fine del mondo si saprà la sostanza di cui furono fatti, che:
“…sembrava simile al cristallo dei diamanti, eppure ne era più forte, sicché non c’era forza, nel Regno di Arda, bastante a guastarla o spezzarla. Pure, il cristallo era, per i Silmaril, null’altro che ciò che il corpo è per i Figli di Ilùvatar: la dimora del suo fuoco interiore, che è in esso e insieme in ogni parte di esso, e che ne costituisce la vita. E il fuoco interno dei Silmaril, Fëanor lo ricavò dalla luce amalgamata degli Alberi di Valinor, che pur sempre vive in loro […]. Sicché, anche nella tenebra del più profondo tesoro i Silmaril per radianza propria splendevano come le stelle di Varda; pure, essendo essi in effetti cose viventi, della luce godevano e la recepivano e la restituivano in sfumature più meravigliose ancora.
[…] Chiunque dimorasse ad Aman fu ricolmo di meraviglia e piacere per l’opera di Fëanor, e Varda consacrò i Silmaril, sì che in seguito nessuna carne mortale, nessuna mano impura, nulla di malvagio potesse toccarli senza bruciare e avvizzire; e Mandos predisse che i destini di Arda, terra, mare e aria, erano racchiusi nei Silmaril. Il cuore di Fëanor era legato a doppio filo a quelle cose da lui stesso prodotte”. (Il Silmarillion, cap. VII, “I Silmaril e le Agitazioni dei Noldor”).
Qui ci troviamo davanti a qualcosa che è una creazione senza pari, eppure non una creazione ex nihilo, non una affermazione di somma e arbitraria libertà. La caratteristica essenziale di Dio è infatti la libertà amante, l’affermazione dell’altro, non di sé: l’amore.
Oseremmo dire che questa è una creazione più grande ancora della creazione delle cose dal nulla, perché nasce dall’accettazione e dalla gratitudine di un dono ricevuto (la luce degli Alberi, creati come luminari prima del Sole e della Luna) che si desidera restituire in un modo mille volte più splendido. Una simile creazione nasce non dalla volontà di “avere cose proprie, nate solo da sé”, ma dal godimento gratuito di ciò che ci è stato dato, e dal desiderio di rendere gloria a qualcosa che non abbiamo fatto noi. Così nascono queste gemme imperiture, che racchiudono infatti in sé il destino di cielo, terra e mare, perché ne rappresentano l’accettazione stupita da parte di una creatura libera, che poteva anche non accorgersene e esser grata di quanto ricevuto.
Una simile mossa è una decisione in favore di ciò che ci precede e ci genera, che non ha bisogno di competere con il Creatore, che non si sente inferiore o schiacciata dalla supremazia del Dio donatore, ma che perfeziona la propria libertà creatrice oltre l’arbitrio, glorificando con la propria libera poiesis qualcosa che sarebbe rimasto incompiuto senza lo sguardo adorante e grato della creatura. Immaginiamo per assurdo le stelle, l’immensità delle galassie e la gloria del loro canto corale in tutta la loro potenza… in un universo vuoto, in cui nessuno si accorgesse degli astri. Avremmo la visione agghiacciante e inaccettabile di una insensatezza inenarrabile.
La creazione artistica, ci dice Tolkien, nasce come restituzione commossa, grata, adorante, come canto di gloria della bellezza ricevuta, che è stata fatta per l’uomo. Così Michelangelo rese omaggio alla figura dell’uomo, così come Dio la fece, nella gloria della sua nudità, pensata per essere amata.
“Chi crede in me, compirà le opere che io compio e ne farà di più grandi” (Gv 14,12). Non so addentrarmi nell’esegesi o nella teologia, ma ho come il “sospetto” che Cristo abbia desiderato per noi qualcosa di più grande di quello che egli stesso ha compiuto, o almeno pari: un amore che prima di essere attivo è passivo o, meglio, la cui originaria attività consiste in una passività, “quella del ricevere, del constatare, del riconoscere”. (L. Giussani, Il senso religioso, cap. X, Rizzoli, 2010).
L’amore tra le Persone della Trinità è comunione, attivo e passivo nello stesso momento. Cristo ebbe tutto ricevendo tutto. Desiderò per noi quel lasciarsi amare che Egli viveva e che gli permise di glorificare il Padre Suo. La sua gloria, la sua azione trasformatrice, nasce come amore per qualcosa che “non ha fatto lui”: come Ilúvatar anima e benedice i Nani, frutto della libertà della creatura, così Dio benedice e accoglie l’offerta delle opere dell’uomo, cioè di qualcosa che non ha fatto (direttamente) Lui.
(3 – continua)
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