L'accordo sulle terre rare firmato da Usa e Ucraina consente a Washington di trarre i maggiori vantaggi da una guerra lontana dai suoi confini
La tempesta ucraina sembra giunta al suo compimento, come se si trattasse di un’esercitazione da manuale dell’alta scuola di guerra economica francese. Tutto si configura come un accordo tra una grande potenza imperialistica e una modesta, ma orgogliosissima e divisa da secoli, media potenza capitalistica, un tempo, di quell’impero, dominio strategico.
Il possesso delle armi atomiche che l’impero allocò nelle sue terre ai tempi delle glorie sovietiche poteva essere un suo nuovo destino nel Novecento, ma dovette restituirle allo stesso impero grande-russo ormai sconfitto, secondo un accordo internazionale che si formulò improvvidamente quando l’impero medesimo crollò, pur fatto a pezzi dalla più grande potenza imperialistica mondiale di ieri e di oggi: quella che proprio di questi tempi firma con l’Ucraina il contratto commerciale imperialistico di cui diremo.
La grande potenza Usa è, naturalmente, non solo la mediatrice, ma soprattutto quella che dal conflitto tra la grande potenza imperialistica aggressiva post-zarista e post-stalinista e la modesta orgogliosa ex landa dell’impero grande-russo nuovamente invasa, trae i più grandi vantaggi, nonostante la guerra si sia svolta in Europa e abbia impegnato in una ventata di “neo-militarismo militante pro diritti umani” le nazioni dominanti l’Ue e l’Ue medesima, con tutti i suoi alti gradi buro-tecnocratici impegnati in una caccia al russo invasore quale mai si sarebbe potuta immaginare.
Ma ora, con l’accordo prima ricordato, sono di nuovo gli Usa la potenza che da quel conflitto trae i maggiori vantaggi, essendosi del resto impegnata nel rifornimento di potenziale bellico con una cura che nessun trattato Ue o impegno Nato avrebbe mai potuto eguagliare, vista la piccola capacità bellica delle sue pacifiche nazioni (pur in un mondo che è sempre più bellico e minaccioso).
Il contratto economico concluso tra Usa e Ucraina, ossia l’aggredita nazione neo-risorgimentale (la “piccola Russia” che è l’Ucraina) impegnerà quest’ultima a una sudditanza duplice: da un lato, con l’ex impero russo “grande russo” (che si terrà gran parte dei territori conquistati nell’aggressione – e questa è la sostanza militare e imperiale non scritta dell’accordo commerciale) e, dall’altro, con l’impero Usa.
L’intesa, infatti, è stata firmata dalla vicepremier e ministra dell’Economia ucraina Yulia Svyrydenko e dal segretario al Tesoro degli Stati Uniti Scott Bessent. Ma sorprendente è l’obiettivo che non segretamente (come bene si faceva un tempo), ma con chiarezza apertis verbi viene dichiarato: la creazione di un Fondo di investimento per la ricostruzione che sarà, udite, udite (dopo tanto strepitare Ue – ossia francese e inglese con balbettii tedeschi e compite dichiarazioni italiche di appoggio sia all’Ucraina sia agli Usa, riconosciuto sin da subito come mediatore in ultima istanza) per metà ucraino e per metà americano e nessuna delle due parti avrà voto di maggioranza.
Il fondo dovrà “attirare investimenti globali” per la ricostruzione della martoriata Ucraina: e qui – allora – ce n’è per tutti…
Si tratta di un accordo straordinariamente esplicito nella sua essenza imperialistica da manuale della scuola classica leninista: esso stabilisce che in caso di nuova possibile (e probabile?) assistenza militare da parte degli Stati Uniti (ossia il trasferimento di sistemi d’arma, munizioni, tecnologia o addestramento), il costo stimato sarà conteggiato nel contributo di capitale del Fondo.
L’accordo garantisce l’accesso privilegiato degli Usa alle risorse minerali ucraine e concerne le attività di “sfruttamento delle riserve e dei depositi sul territorio dell’Ucraina di 57 minerali” (alluminio, cobalto, rame, oro, nichel, litio, titanio), nonché petrolio e gas naturale (compreso il gas naturale liquefatto).
“L’accordo – si afferma a chiare lettere per coloro che avessero qualche dubbio sul significato di esso – è espressione di un più ampio allineamento strategico a lungo termine tra i popoli e governi delle due parti, nonché una dimostrazione tangibile del sostegno degli Stati Uniti d’America alla sicurezza, alla prosperità e alla ricostruzione dell’Ucraina e alla sua integrazione nel quadro economico globale”.
Dopo gli strepiti di Macron, disperato e impazzito come Riccardo III (ricordate? I wasted time, and now doth time waste me), dopo il rigurgito antirusso da Commonwealth del primo ministro laburista inglese, dopo il mal di pancia tedesco che paralizza anche il nuovo primo ministro volenteroso più che mai, dopo le litanie della von der Leyen a cui non crede più nessuno, dopo le buone tattiche atlantiche disarmate della Meloni, ecco che giungono come sempre i genieri nordamericani, che sembrano gli inglesi del primo libro del Capitale di Marx: ora al posto dell’industria tessile indiana c’è l’Ucraina, e al posto degli inglesi… c’è sempre l’anglosfera, ossia gli Usa.
Si potrebbe dire, con T.S. Eliot, che tutto sta terminando nel modo di sempre. Ricordate:
This is the way the world ends
This is the way the world ends
This is the way the world ends
Not with a bang but a whimper.
Così finisce una poesia ch’è forse il vertice della poesia del Novecento: The Allow Men (1925). E che bene racchiude i segreti del destino del mondo che avanza, in Ucraina e altrove.
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