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Home » Educazione » Scuole Superiori » SCUOLA/ “Troppa ipocrisia, si può insegnare Petrarca a chi non capisce ciò che legge?”

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SCUOLA/ “Troppa ipocrisia, si può insegnare Petrarca a chi non capisce ciò che legge?”

Marco Ricucci
Pubblicato 29 Maggio 2025
Maturità 2025

Esame di Stato (Ansa)

La letteratura viene insegnata a scuola cercando di far piacere a tutti un canone immutabile. Ma molti di quei "tutti" non capiscono cosa leggono

Nessuno contesta il valore dei classici. Ma è necessario smettere di usarli come un alibi. L’insegnamento della letteratura italiana, per come è strutturato oggi in molte scuole secondarie, soprattutto nei percorsi tecnici e professionali, ignora la realtà concreta degli studenti a cui si rivolge. Continua a proporre un modello di istruzione che privilegia la ripetizione astratta della storia letteraria, trascurando le competenze di base senza le quali quei testi non possono essere né compresi né apprezzati.


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Comprensione del testo, scrittura, capacità di argomentare: queste sono le vere emergenze educative della scuola italiana. Invece di lavorare su questi aspetti fondamentali, spesso ci si ostina a proporre lo stesso identico percorso a tutti, come se un quindicenne di un istituto professionale con gravi lacune linguistiche potesse trarre beneficio dallo studio puntuale della poetica di Tasso o della querelle tra classicisti e arcadi. La verità è che molti studenti non capiscono ciò che leggono, e non sanno scrivere. Ma di questo si parla poco.


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Si preferisce alzare barricate retoriche in difesa di un canone trasformato in reliquia, più che in risorsa. I programmi ministeriali sono concepiti come se il tempo e le condizioni della scuola non fossero cambiate da decenni. E molti docenti, cresciuti nella convinzione che “quello che è bastato a me, deve bastare anche a loro”, replicano metodologie ricevute dai propri professori universitari, in una spirale di autoreferenzialità che ha smesso di interrogarsi sui bisogni reali degli studenti.

L’università, dal canto suo, non aiuta. La storia della letteratura italiana continua a essere gestita come uno scettro accademico, simbolo di una superiorità intellettuale che spesso si traduce in immobilismo. Le facoltà umanistiche raramente propongono percorsi formativi che mettano in discussione il modello canonico, e ancora meno si interrogano su come insegnare efficacemente la letteratura a chi non ha gli strumenti per accedervi. Di didattica si parla poco, e quasi sempre con sufficienza.


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Il risultato è una frattura profonda tra il mondo scolastico e quello reale. Gli studenti, soprattutto nei percorsi meno teorici, si trovano di fronte a testi complessi senza un’adeguata preparazione linguistica. Leggono Dante, ma non capiscono il significato di una frase di media difficoltà. Viene chiesto loro di scrivere commenti, ma non sanno costruire un paragrafo coeso. E quando si sottolinea questa evidenza, si viene accusati di voler “abbassare l’asticella”.

Ma non è abbassare l’asticella. È riconoscere che senza basi solide non c’è innalzamento possibile. È accettare che l’insegnamento della letteratura deve essere strumento di crescita culturale, non rito identitario. Serve una riforma profonda dei curricoli, che parta dalla realtà delle classi: quattro ore settimanali non possono bastare per fare tutto, se “tutto” significa sia studiare la metrica del Petrarca sia imparare a scrivere una mail.

È necessario ripensare radicalmente l’approccio. In un istituto professionale si può partire da testi che parlano di lavoro, di famiglia, di memoria, di ingiustizia. Carlo Levi, Natalia Ginzburg, Cesare Pavese, Primo Levi: autori che offrono un linguaggio accessibile e temi universali, capaci di stimolare riflessione critica. Da lì si può risalire a Dante, a Leopardi, a Manzoni. Ma non come monumenti intoccabili: come interlocutori vivi.

Il cambiamento passa da una scuola che abbia il coraggio di scegliere. Che non insegua l’uniformità per paura del confronto. Che sappia dire: non tutto si può fare, ma quel che si fa deve servire. Serve anche una università che esca dalla sua torre d’avorio e riconosca che l’insegnamento non è un atto di trasmissione, ma di mediazione. Che formi docenti capaci non solo di conoscere la storia letteraria, ma di comunicarla in modo significativo a contesti diversi.

La letteratura non è un’eredità da conservare sotto vuoto, ma una materia viva. Un laboratorio di pensiero, un luogo in cui si impara a interpretare il mondo. Ma per farlo, occorre che i ragazzi imparino prima a leggere, a comprendere, a scrivere. Non servono nuovi elenchi di autori, ma nuovi percorsi di senso. Non una difesa cieca della tradizione, ma una rinnovata fiducia nell’intelligenza educativa della scuola. Solo così i classici potranno continuare a parlare, e noi ad ascoltarli.

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