Nel vertice dei leader di centrodestra che si è tenuto ieri, ufficialmente sul fine vita, Tajani si è nuovamente opposto al terzo mandato
Ci sono questioni in apparenza secondarie che, d’improvviso, rendono chiaro un problema assai più grande. Non sono passate nemmeno 24 ore dall’esito referendario, con la bruciante sconfitta della sinistra a trazione Landini, che dentro la maggioranza si è riaperta una ferita che indica quale sia oggi la vera posta in gioco.
Stiamo parlando della questione del terzo mandato per i presidenti di regione, che, alla vigilia del voto, era stata a sorpresa rilanciata dai colonnelli di Fratelli d’Italia. Una disponibilità a riparlarne che aveva riacceso il dialogo con la Lega.
Ma dentro o fuori un vertice di maggioranza convocato ieri ufficialmente per affrontare la delicata questione del fine vita (poco importa se nel confronto dei leader se ne sia parlato, o no) è arrivato un brusco stop da Forza Italia: Tajani ha ribadito la totale indisponibilità a prendere in considerazione la questione, trovando come unica sponda Noi Moderati di Lupi.
Per comprendere la portata della questione va analizzata la ragione per la quale i meloniani hanno riaperto un problema che sembrava archiviato.
Dicono che dalle parti di via della Scrofa che dopo il primo turno delle amministrative, in cui il centrodestra non ha proprio brillato, si sia aperta una riflessione su cosa fare per non trasformare le regionali previste per l’autunno in un bagno di sangue. Le Marche sono in bilico, e il Veneto è appeso alle scelte di Zaia, che non ha proprio digerito il no al terzo mandato (che per lui in realtà sarebbe il quarto, visto che la norma è scattata quando aveva già fatto il suo primo quinquennio da governatore).
Dare il via libera al terzo mandato – è il ragionamento dei meloniani – non solo garantirebbe la vittoria in Veneto, ma rappresenterebbe un dito nell’occhio a Elly Schlein, che farebbe fatica a liberarsi di De Luca in Campania, il cacicco più restio a cedere il passo al rinnovamento voluto dalla segretaria.
E alla domanda su come si fa, visto che siamo già a metà giugno e i tempi sono strettissimi, la risposta a mezza bocca è che si potrebbe dare il via libera a una proroga dei governatori alla primavera del 2026. Sei mesi in più, che consentirebbero di unificare le regionali con le amministrative del prossimo anno.
Del resto, la proroga l’avranno i sindaci eletti in periodo Covid, nell’ottobre 2021: per i successori di Sala, Gualtieri, Manfredi e Lorusso si voterà nella primavera del prossimo anno. La Lega già oggi dal Consiglio federale potrebbe chiedere un segnale al governo.
Agli occhi dei leghisti il no di Forza Italia è più che sospetto. Personaggi di vertice di via Bellerio dicono senza tanto girarci intorno che ormai Tajani è un problema per Meloni, e non per il Carroccio. Non c’è solo la questione del terzo mandato dei governatori, c’è anche lo smarcarsi in tema di cittadinanza, con il rilancio post referendario dello ius scholae, la concessione della cittadinanza dopo dieci anni di frequenza con profitto del nostro sistema d’istruzione.
Si tratta di una materia su cui Salvini non vuole aprire spiragli, e neppure lo stato maggiore di Fratelli d’Italia. Ma è anche la pace fiscale chiesta dalla Lega, la rottamazione delle cartelle esattoriali su cui insiste Salvini per sbloccare l’economia, a incontrare il no di Tajani, che risponde parlando di “incrostazioni di potentati” e di condono.
D’ora in avanti, insomma, Tajani e gli azzurri potrebbero essere un serio problema per Giorgia Meloni. Il suo costante smarcarsi sta stufando gli alleati, che sospettano risponda a disegni nati lontano dal cuore del centrodestra. Prima o poi la premier non potrà che affrontare di petto la questione. Lo stillicidio di distinguo e prese di distanza rischia di minare lentamente l’azione di governo.
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