Louis Nero ci ha raccontato la sua ultima fatica, il film "Milarepa" in uscita il prossimo 19 giugno: il viaggio spirituale di Mila
Milarepa, il nuovo film di Louis Nero, in sala dal 19 giugno, si muove in un mondo post-apocalittico, in cui la natura ha sopraffatto la tecnologia. Mila, una dodicenne, è devastata dall’uccisione del padre. Spinta dalla madre, ottiene la sua vendetta imparando a padroneggiare il potere segreto della natura. Così, Mila inizia un viaggio per redimersi dalle malvagità che ha commesso.
Nella tradizione tibetana, Mila era di sesso maschile. La storia che ci è stata tramandata narra come visse un’esistenza segnata da sofferenze, vendetta e colpa, prima di intraprendere un durissimo cammino di purificazione e risveglio. Dopo aver praticato arti magiche per vendicarsi delle ingiustizie subite dalla sua famiglia – causando anche la morte di molte persone – si rese conto dell’enorme karma negativo che aveva accumulato. Mosso da un desiderio sincero di redenzione, si affidò al maestro Marpa, che lo sottopose a prove durissime prima di iniziare a insegnargli. Da quel momento diventò Milarepa, vale a dire “Mila vestito di tela”. Dopo anni di ascesi e meditazione, Milarepa raggiunse l’illuminazione.

Dall’ispirazione all’adattamento
Louis Nero, come nasce l’idea di fare un film su Milarepa?
Ho conosciuto Milarepa anni fa, credo più o meno venti, quando letto il libro su di lui (Vita di Milarepa I suoi delitti, le sue prove, la sua liberazione, pubblicato da Adelphi, NdA). Da quel momento mi sono innamorato del personaggio e ho detto “Prima o poi ci farò un film”.
Come si è rapportato a questa figura spirituale così complessa e contraddittoria?
Mila presenta una particolarità affascinante: la prima parte della sua vita lo ha visto agire in modo, diciamolo pure, malvagio. Tuttavia, questo non ha in alcun modo precluso la sua successiva ricerca spirituale, che lo ha portato, nella seconda parte della sua esistenza, a raggiungere l’illuminazione e diventare un Buddha. È un passaggio significativo che ci mostra come non esista, di fatto, un legame tra l’illuminazione e la morale, contrariamente a quanto spesso si crede in Occidente. Chiunque, a prescindere dal proprio passato, può intraprendere un percorso spirituale e raggiungere uno stato di profonda realizzazione.
Inevitabile il confronto con il film di Liliana Cavani dallo stesso titolo, uscito nel 1974.
Liliana Cavani è una grandissima regista. Ho visto il suo film più di una volta e, a mio parere, il suo approccio è profondamente diverso dal mio. Ha utilizzato la figura di Mila per analizzare la sua contemporaneità, gli anni ’70, esprimendo così la sua volontà di discutere di politica. Il mio lavoro, invece, ha cercato di fare l’opposto: non contestualizzare, ma rendere questa vicenda ancora più mitologica. L’obiettivo è raccontare una storia che possa parlare ai giovani di oggi, di domani e del futuro. Ho cercato di prendere i topos della storia di Milarepa, in particolare il suo percorso spirituale, e di adattarli in chiave moderna. Ho voluto trovare il minimo comune denominatore per narrare una storia universale e senza tempo.
Tra fantascienza e autenticità visiva
Il film potrebbe essere inserito nel canone della fantascienza post-apocalittica, alla Mad Max per intenderci?
Il fatto che sia ambientato nel futuro lo classifica automaticamente come fantascienza, anche se non lo è nella sua essenza. Il futuro che vediamo sullo schermo vuole richiamare un passato remoto, dove la tecnologia, la complessità e ogni artificio erano assenti.
Il suo lavoro è noto per un’attenzione quasi palpabile ai dettagli visivi e sonori. In Milarepa”, sembra aver cercato una profonda autenticità nell’immagine e c’è stata una ricerca davvero meticolosa anche sulla musica. Come ha plasmato questi due elementi fondamentali del film?
Abbiamo voluto creare uno spazio dove la natura ha ripreso il possesso di ogni cosa. La natura è la vera protagonista: dove non è presente, vediamo monumenti e strutture contemporanee in uno stato di completa decadenza. Ne è risultata un’atmosfera con colori poco marcati e un forte miscuglio visivo in cui l’Oriente sembra aver colonizzato l’Occidente. Si possono notare muri con le bandierine degli stupa indiani e si percepisce come l’Oriente, non solo nell’abbigliamento ma anche negli oggetti, abbia dato vita a un vero e proprio melting pot con elementi tipicamente mediterranei. Abbiamo volutamente mescolato caratteristiche del mondo arabo-mediterraneo con quelle orientali, creando una nuova umanità, evidente anche nei tatuaggi e nei tratti delle persone.
E la musica?
Con Andrea Guerra, autore della colonna sonora, la scelta è stata molto chiara: unire le peculiarità della musica contemporanea con canti mongoli e voci orientali rarefatte. Il risultato è una fusione di mondi.
Il cuore narrativo: la trasformazione di Mila
Entriamo nel cuore pulsante del film.
Il personaggio di Mila ha un arco narrativo estremamente particolare. All’inizio, si trova con la madre, che è la figura materna tradizionale, buona e protettiva. Ma con la morte del padre, la sete di vendetta trasforma profondamente la madre. Mila stessa, pian piano, si trasforma e diventa quasi malvagia. Non è lei a volere la vendetta, ma è obbligata dalla madre a cercarla. Il percorso di Mila la porta poi a incontrare Damena, la moglie di Marpa, che inizialmente si mostra dura, ma in seguito si rivela una vera e propria figura materna. Quindi, Mila attraversa queste due figure femminili, entrambe caratterizzate da una doppia ambivalenza. Questo rende il percorso del personaggio davvero interessante, poiché lei stessa si trasforma lungo il racconto. Dal punto di vista cinematografico, abbiamo creato un legame immediato tra queste due donne: entrambe tessono, entrambe cantano, entrambe compiono azioni che le connettono profondamente.
Nella storia originale, come detto, Mila è un ragazzo, poi uomo. Nel suo film, è una ragazza e ha il volto di Isabelle Allen. Perché questo cambio di genere?
Per sottolineare l’universalità del percorso. Il nome Mila resta neutro. E volevo che il pubblico potesse identificarsi ancora di più: Mila è una giovane qualunque, in cammino verso se stessa.
Come avete plasmato il personaggio?
Con Isabelle, abbiamo svolto un lavoro completo di costruzione del personaggio, tra letture, scelte dell’abbigliamento e persino il taglio di capelli. La peculiarità di Mila risiede proprio nella sua ambiguità. Questa incertezza sulla sua vera natura, se sia malvagia di per sé o solo per coercizione, la porta a un punto di svolta. È solo quando esegue l’ordine della madre di distruggere il villaggio, in quel momento di totale annientamento, che finalmente capisce che quella non era la sua vera volontà.
Un cast globale che ha trovato casa in Sardegna
Il film un cast molto vario, con attori di diverse etnie e religioni. Quanto ha influito questa diversità nella costruzione dell’universo narrativo?
Il film è stato girato in Sardegna, ma abbiamo avuto attori dal Giappone, dall’Africa, dall’America, dall’Inghilterra, dal Messico. Era stimolante usare la provenienza dell’attore per arricchire il personaggio. Abbiamo cercato di usare l’attore stesso come elemento per la costruzione del personaggio.
Nel cast spiccano nomi come Harvey Keitel, F. Murray Abraham e Franco Nero (con cui non siete parenti).
Con Murray Abraham il processo è sempre lo stesso: facciamo molte prove, non cambiamo nulla all’ultimo. Essendo un uomo di teatro, è contento di questo approccio. Poi, creiamo il personaggio insieme. Di lui, ad esempio, abbiamo completamente rivisitato il look: si è fatto crescere capelli lunghi e una barba folta, l’abbiamo trasformato. Ma chi mi ha davvero stupito, perché non ci avevo mai lavorato prima, è stato Harvey Keitel. Tutti si aspettano che sia scontroso, un lupo solitario, ma in realtà è l’esatto opposto. Innamoratosi della sceneggiatura, mi ha detto “Questo è il ruolo che cercavo da 60 anni di carriera, finalmente posso fare il personaggio che non mi hanno mai permesso di interpretare”. La relazione è iniziata benissimo, capiva profondamente i temi perché come persona è molto affine a questi argomenti. Con lui ci sentiamo ancora: è passato un anno e mezzo ed è raro che succeda con gli attori.
La Sardegna. Cosa l’ha attratta in particolare?
La Sardegna ha offerto un vantaggio unico. Abbiamo girato in zone dell’Ogliastra, nell’entroterra, che un tempo erano turistiche, ma sono state di fatto abbandonate. Negli anni Settanta, con la chiusura delle miniere, la gente se n’è andata. Così, ci siamo ritrovati in un mondo che è realmente decaduto ed è stato riconquistato dalla natura, rendendolo estremamente affascinante. Le ambientazioni ricordano molto quelle di Stalker di Tarkovskij. La Sardegna era il luogo ideale perché rispecchiava perfettamente il mio immaginario.
Guardare e meditare
Il suo cinema è spesso percepito come sperimentale, un’esplorazione audace di temi profondi. È un cinema d’autore?
Da un certo punto di vista sì, perché c’è sempre una ricerca di determinati temi, quindi si avverte una traccia ben visibile.
Secondo lei, che spazio ha oggi in Italia un tipo di cinema che non rientra nel filone più convenzionale?
La risposta a questa domanda, forse, nasce prima della domanda stessa: ha senso limitare il pensiero all’Italia? Il nostro è un mercato estremamente piccolo. E, purtroppo, è anche un mercato che non privilegia particolarmente la qualità. È un mercato piuttosto confuso, non comprende bene cosa voglia. Non abbiamo un pubblico definito che dica “a noi piace questo”. Fino a dieci anni fa si diceva “al pubblico piacciono i cinepanettoni” e così via. Ora non più. Non esiste, quindi, un pubblico vero e proprio orientato verso un tipo specifico di cinema. Alla fine, ogni film trova la sua nicchia, più o meno grande, di persone interessate a quel genere. Una nicchia che, tra l’altro, è molto varia: ho spettatori ottantenni e altri di vent’anni. Persone che concepiscono il cinema come un luogo di approfondimento e non solo di intrattenimento.
Cosa significa per lei davvero guardare un film?
Quando io guardo un film – non il mio, ma un qualsiasi film – il mio lavoro finale è quello della concentrazione, che è identica alla meditazione che è identica alla preghiera. Tolgo tutti i pensieri e cerco di capire cosa accade. Quindi, un film è già, in un certo senso, una meditazione, come qualsiasi altra opera d’arte. Portare la gente a concepirlo questo momento, senza essere interrotti dal cellulare o da altre distrazioni, è bello. È un percorso, una fruizione di quell’ora, ora e mezza, in cui si è immersi in un altro mondo, si è concentrati in un altro mondo e in quel modo si cambia, volutamente o meno, perché si è vissuta un’avventura che non si era mai vissuta prima.
Cosa spera che il pubblico porti con sé, dopo aver visto “Milarepa”?
Sarà il pubblico a risponde a questa domanda, in prima persona. Alla fine della proiezione serali, avremo un lama buddhista in ogni sala. Condurrà, alla fine del film, una meditazione legata al viaggio di Mila. Saranno le persone che, in contemporeanea, mediteranno su Mila, sul film, sul suo percorso. L’idea è far capire alle persone che la meditazione e la preghiera possono essere declinate in qualsiasi modo. Sono, in fondo, la stessa cosa, e hanno a che fare con la crescita personale. E poi, è un modo per concepire l’arte e il luogo in cui viene proiettata, come un luogo sacro. Un luogo non solo di intrattenimento, ma un luogo dove si cresce e si cambia.
(Carlo Faricciotti)
