Tutti gli eventi che hanno portato all’attacco Usa ai siti nucleari dell’Iran. La risposta dei Pasdaran è già scattata su Israele e non sarà l’ultima
Due settimane per decidere se portare la sua America in guerra in Iran. Trump aveva preso tempo, e sembrava una mossa tranquillizzante per quei MAGA (“Make America Great Again”, Rendiamo l’America di nuovo grande), gli stessi che gli avevano regalato il ritorno alla White House, che di una nuova guerra dall’altra parte del mondo non volevano sentir parlare: meglio restare concentrati sulla lotta all’immigrazione, sui dazi, ed eventualmente sulle avances su Groenlandia e Panama. In pratica sulla dottrina autarchica di Steve Bannon, l’ex chief strategist della Casa Bianca.
Ma c’era anche un’altra lettura: le due settimane sarebbero servite a lasciare campo aperto alle IDF (le forze armate israeliane) per “ripulire” meglio il territorio iraniano da lanciatori, postazioni radaristiche e contraeree, lasciando un margine di manovra più sicuro per i raid dell’aviazione USAF.
Una tesi avvalorata dal fatto che alcuni bombardieri americani Northrop Grumman B-2 Spirit (probabilmente tre), gli unici che possono trasportare le temibili bombe GBU-57, le bunker buster, in grado di distruggere la struttura nucleare sotterranea fortificata dell’Iran a Fordow, erano decollati dalla Whiteman Air Force Base nel Missouri sabato mattina, diretti a Guam, isola territorio statunitense in Micronesia, nel Pacifico occidentale.
La terza lettura, però, era quella giusta, e si basava sull’arte del depistaggio, della disinformazione, dell’“everything and the opposite”, tutto e il contrario di tutto, l’abitudine bipolare di Trump di dire una cosa e farne un’altra.
Ed infatti, a 48 ore dal “mi prendo due settimane per decidere”, l’altra notte tre B-2 hanno colpito i tre siti nucleari di Fordow (la montagna bunker), Isfahan e Natanz. Ancora è presto per stabilire (con valutazioni indipendenti) i danni subiti dai centri di ricerca e arricchimento del materiale fissile, così come restano confusi, a volte contraddittori, i report sullo stato di avanzamento iraniano nella fattura di un ordigno atomico.
Di sicuro c’è la posizione assunta recentemente dall’IAEA, l’Agenzia internazionale dell’energia atomica, che per la prima volta in vent’anni la scorsa settimana aveva accusato Teheran di scarsa trasparenza, se non di palese volontà di procedere con i suoi programmi nucleari in dispregio di ogni accordo. Una posizione che di fatto aveva legittimato l’inizio dei bombardamenti israeliani, anche se concrete prove materiali sull’avanzamento della produzione di una bomba non ce ne sono ancora.
E tutti hanno ben presente quanto la propaganda di guerra abbia inciso su geopolitiche e conflitti, come quando le presunte armi di distruzioni di massa di Saddam Hussein portarono all’invasione di Bagdad nel 2003, armi che però non erano mai esistite.
L’intransigenza iraniana, assolutamente ferma a non interrompere il suo programma nucleare, farebbe però ritenere più che concreta la volontà di arrivare all’ordigno nei tempi più brevi possibile.
Dopo l’attacco americano, la risposta degli ayatollah adesso potrebbe arrivare con missili contro le navi e chiusura dello Stretto di Hormuz, almeno stando a quanto proclama Hossein Shariatmadari dal quotidiano Kayhan, che si definisce rappresentante della Guida Suprema Ali Khamenei. “Dobbiamo lanciare attacchi missilistici contro la flotta navale americana basata in Bahrein – ha detto – e chiudere lo Stretto di Hormuz alle navi americane, britanniche, tedesche e francesi”.
Del resto, la stessa “costituzione” creata dal regime teocratico militare iraniano si basa fin dall’inizio, dopo la rivoluzione e la fuga dello scià, sulla distruzione dello Stato ebraico e la guerra al “grande Satana”, gli USA e la cultura occidentale. Dopo l’attacco Usa, il ministro degli Esteri iraniano Abbas Araghchi ha dichiarato che “l’Iran si riserva il diritto di utilizzare tutti i mezzi per proteggere la propria sovranità, i propri interessi e il proprio popolo. Gli eventi accaduti sono oltraggiosi e avranno conseguenze irreversibili”.
Le prime sono stati i missili piovuti già nella notte, dopo l’attacco USA, su Tel Aviv e Haifa. Le Guardie della rivoluzione (i Pasdaran) hanno dichiarato di “aver utilizzato missili a lungo raggio a combustibile solido e liquido, con testate distruttive e l’impiego di nuove tattiche per aggirare le difese nemiche. Gli attacchi erano diretti all’aeroporto, a un centro di ricerca biologica dell’entità sionista, e a basi di supporto e centri di comando”. Ma hanno aggiunto che le conseguenze dell’attacco americano “saranno eterne”.
È chiaro che nessuna base USA nell’intero quadrante mediorientale può ritenersi immune dalle ritorsioni (“Le loro basi in Medio Oriente saranno ridotte in cenere” hanno detto i Pasdaran), e nemmeno il traffico marittimo nel mar Rosso potrà riprendere, visto che i ribelli filoiraniani Houthi yemeniti hanno dichiarato che “amplieranno la portata del conflitto”, e che i navigli americani non godranno più di quel salvacondotto che era stato faticosamente raggiunto con gli USA in cambio della cessazione degli strike sul proprio territorio.
Intanto, costretto in un bunker e con la morsa che si stringe attorno a lui, l’ayatollah Ali Khamenei – riporta Haaretz – ha nominato tre potenziali successori, tre “chierici” anziani (non il figlio Mojtaba), oltre a un lungo elenco di militari da promuovere in caso venissero uccisi altri comandanti.
Come sottolinea Axios (il sito comprato nel 2022 da Cox Enterprises per 525 milioni, fondato a Washington da tre giornalisti provenienti da Politico), la Guida suprema è di fatto introvabile, tanto che anche il presidente Masoud Pezeshkian e il ministro degli esteri Abbas Araghchi avrebbero cercato di contattarlo senza successo la scorsa settimana per ottenere la sua approvazione ad un incontro con gli USA a Istanbul.
L’intelligence di Teheran è ossessionata dalla presenza di informatori del Mossad. E la caccia alla spia è stata infiammata dalla minaccia di Donald Trump, che ha detto di “sapere esattamente dove si nasconde” il leader iraniano, ma che “per ora non verrà ucciso”. Ma come si è visto, le dichiarazioni di Trump sono destinate quasi sempre ad un brusco dietrofront nella realtà.
Israele nel frattempo prosegue nelle eliminazioni mirate. L’altro giorno ha colpito due generali iraniani: Saaed Izadi – responsabile dei rapporti, finanziari e militari, dell’Iran con Hamas, “uno dei principali orchestratori del massacro del 7 Ottobre”, dicono le IDF, e comandante del Corpo di Palestina nella Forza d’élite Quds delle Guardie rivoluzionarie –, e Behnam Shahriyari, che ha supervisionato i trasferimenti di armi di Teheran alle sue legioni straniere, i proxy (Hezbollah, Houthi, Hamas).
Dopo l’entrata in guerra degli Usa, le incertezze e le domande si succedono. Il Qatar, ad esempio, s’interroga sulla sicurezza degli impianti nucleari iraniani vicino ai suoi confini, anche se l’IAEA ha confermato che al momento non sono stati segnalati aumenti dei livelli di radiazioni all’esterno dei siti colpiti.
L’analista Zvi Bar’el riferisce delle angosce espresse dagli ambasciatori del Consiglio di cooperazione del Golfo: “A differenza dei sogni, le speranze generalmente hanno una base nella realtà. Ma la storia recente dimostra che eliminare governanti o regimi non è una garanzia che un’ideologia sarà distrutta o che i regimi liberali li sostituiranno. Le morti di Saddam Hussein in Iraq, il leader talebano Mullah Omar in Afghanistan, Muammar Gadhafi in Libia e Ali Abdullah Saleh nello Yemen hanno lasciato indietro Paesi distrutti che restano lontani dal liberalismo europeo o americano. Questi omicidi hanno anche generato nuove minacce – alcune delle quali, come nello Yemen e in Iraq, sono diventate parte integrante della minaccia regionale rappresentata dall’Iran”.
Mentre le discussioni e le proposte fatte da tre Stati europei all’Iran sul suo programma nucleare a Ginevra sono state cassate quali “irrealistiche” dai funzionari iraniani, gli stessi hanno azzerato ogni possibilità diplomatica, affermando che “l’arricchimento zero è un vicolo cieco: l’Iran non vuole negoziare sulle sue capacità difensive, incluso il programma missilistico”.
La guerra che infiamma il Medio Oriente, comunque, prosegue anche su tutti gli altri fronti caldi: a Gaza le vittime dall’inizio della guerra sarebbero 55.908, secondo Hamas; in Libano un’unità della marina israeliana ha colpito un sito utilizzato dall’élite Radwan Force di Hezbollah a Naqoura; nello Yemen aumenta l’attenzione per i probabili lanci missilistici degli Houthi. È una guerra se non mondiale, quantomeno fortemente diffusa, in cui religioni, etnie, finanze, ideologie e armamenti si mescolano in una pericolosa escalation di bullismo geopolitico, che prelude solo a morte, violenza e miserie.
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