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Home » Esteri » SCENARIO USA/ Trump e quei bombardieri “invisibili” senza una strategia-mondo

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SCENARIO USA/ Trump e quei bombardieri “invisibili” senza una strategia-mondo

Leonardo Tirabassi
Pubblicato 25 Giugno 2025
Donald Trump

Il presidente americano Donald Trump (Ansa)

L’impero USA c’è ancora: lo si è visto nell’attacco all’Iran. Ma la proiezione dell’America sembra non avere visione. Trump deve trovarla in fretta

Adesso che le anime belle in Italia hanno scoperto che esistono nel mondo gli imperi, l’imperialismo, i vassalli e i valvassori, adesso che finalmente si ribellano al grido rivoluzionario di “nessuna base aerea agli USA!”, ironia della sorte, o se vogliamo del destino cinico e baro, Washington fa a meno degli alleati.


Incontro Russia India, accordo commerciale "Contro le pressioni Usa"/ Aumenteranno scambi di petrolio e armi


Organizza un volo impressionante di 40 ore di aerei invisibili sopra mari e continenti e sgancia bombe mostruose sull’Iran. Aerei che nemmeno le due navi da guerra cinesi piene zeppe di marchingegni tecnologici, a due passi dall’Iran, riescono a rilevare. Così d’un colpo riafferma tutta la sua capacità di deterrenza e dice al mondo quello che tutti sanno e spesso si dimenticano. “Siamo ancora la superpotenza. Nessuno provi a provocarci. E possiamo agire anche senza l’aiuto di nessuno”. E senza la copertura dell’ipocrita e impotente ONU.


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Sono anni che leggiamo analisi sul tramonto degli USA, del declino dell’impero americano ormai segnato da una crisi irreversibile, scambiando le debolezze e contraddizioni in forza assoluta dell’altro.

Come se la Cina fosse una potenza granitica e i BRICS un’alleanza di ferro, e la Russia una superpotenza che dopo anni di guerra e centinaia di migliaia di morti ha conquistato una striscia di un centinaio di chilometri di profondità.

O che la vittoria di Trump e la voce grossa con l’Europa, la NATO e i colloqui con Putin, potessero essere letti come sinonimo di volontà di rinchiudersi al sicuro, difesi dagli oceani, come gli rinfacciò Zelensky. Così gli alleati che gridano si ritrovano ancora più soli, più deboli e dipendenti.


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Trump si è rivelato un opportunista, con un senso della tattica spaventoso, che approfitta della situazione, che picchia duro ma non tanto. Non cade nell’errore – speriamo – del cambiamento di regime come i suoi amici neocon fecero in Iraq e Afghanistan, non si impelaga in guerre che durano decenni, costano milioni di dollari e producono solo caos.

Per la prima volta nella storia entra in guerra a fianco dell’amico israeliano, ma dall’alto, e offre subito un ramoscello d’ulivo, quasi ringrazia Teheran della risposta debole e dice a Netanyahu di rispettare la tregua. E non offre nessuna sponda ai Pahlavi resuscitati.

Ma non va tutto bene. Nessuno ha mai dubitato seriamente della forza assoluta di Washington, che è riuscita a trasportare un esercito per due volte in Iraq e una volta in mezzo al nulla dell’Afghanistan, chiuso tra le montagne. Che ha sconfitto Saddam, distrutto Al Qaeda e bin Laden. O nessuno nemmeno dubita delle capacità di manovra nelle crisi, si veda il lavorio nelle cosiddette “primavere arabe” o nell’Europa dell’Est delle “rivoluzioni colorate”.

Ciò che sembra mancare dal crollo del Muro è però una visione strategica, un progetto politico di lungo respiro di gestione del sistema-mondo come fu la costruzione della cornice, la serie di pacchetti all’indomani della Seconda guerra mondiale.

Da una parte un’impalcatura di istituzioni internazionali, dall’altra una proposta economico-finanziaria, accompagnata da un’architettura di sicurezza, il tutto cementato da un sistema ideologico e valoriale. Un’architettura complessa in grado di supportare l’impianto strategico della Guerra fredda con la logica delle sfere di influenza.

Questa visione strategica di grande respiro capace di durare nei decenni e di reggere alle diverse crisi è ciò che manca da troppi decenni agli Stati Uniti. Qui sta il nocciolo del problema. Certo vi è la crisi interna spaventosa del Paese, ma il Nuovo Mondo ha sempre gestito crisi altrettanto distruttive al proprio interno, a partire dalla Guerra civile.

Washington non ha offerto, dopo la Guerra fredda, nessun progetto alla Russia post-sovietica, non è riuscita né a inglobarla, né a indebolirla. Ha spostato ad Est i confini della NATO, ma non ha gestito la crisi della Crimea; ha sostenuto Kiev, sapendo che non poteva vincere la guerra e adesso è infastidita dal pesante fardello a migliaia di chilometri di distanza. D’altronde niente aveva capito – ma di questo hanno una responsabilità anche maggiore gli europei – di quanto stava succedendo nella crisi dell’ex Jugoslavia.

Washington ha deposto Saddam, arabo sunnita laico, oppositore e contrappeso del regime teocratico iraniano, permettendo la costruzione di quella mezzaluna sciita dal Golfo al Mediterraneo, nemica di Israele, e se non alleata, amica di Pechino e Mosca.

Ha sognato cambi di regime impossibili in Afghanistan, sprecando uomini, soldi e tempo per poi abbandonare gli alleati locali al loro destino. Ha fomentato le primavere arabe facendo crescere di influenza la Fratellanza Musulmana e per poco non ha consegnato mezzo Medio Oriente ai macellai dell’ISIS, rischiando per giunta di perdere l’Egitto.

Infine ha partecipato alla fine di Gheddafi, che aveva rinunciato al nucleare!, lanciando così un messaggio terribile al mondo, “Cari Stati-canaglia, è meglio se resistete, perché se vi arrendete vi distruggiamo!”.

Oppure, si potrebbe citare il caso del comportamento nei confronti della Cina. Prima la si fa entrare nel WTO, poi si disloca la produzione industriale in quel Paese perché là la manodopera costa meno, infine le si permette di comprare una bella fetta di debito, e poi la si dichiara avversario strategico.

Queste sono solo delle note impressionistiche che avrebbero bisogno di molto più spazio. Il mondo non è più quello bipolare della Guerra fredda. È iper-connesso, con molti più attori. È più grande, senza spazi-cuscinetto, quindi anche più ristretto e molto più veloce.

C’è chi si appella al diritto internazionale come architettura per governare. Ma il diritto internazionale non ha mai funzionato da solo. Ha bisogno di un accordo anche sull’uso della forza illegale, su quando usarla nei casi di crisi, su come usarla e quanta usarne.

Yalta è stato questo. Può sembrare un discorso cinico, ma ai tempi dello scontro USA-Unione Sovietica i due contendenti sapevano a quale livello era un conflitto, e a che livello collocarlo; parlavano cioè la stessa lingua. Sapevano se una guerra era di nessuna importanza, perché non metteva in gioco gli equilibri, se riguardava solo una singola potenza – si vedano i casi dell’Ungheria, della Cecoslovacchia o del Vietnam –, o invece se si trattava di crisi sistemiche, come nel caso dei missili a Cuba, che minacciavano l’ordine mondiale.

A Trump spetta il compito di disegnare una cornice per un nuovo ordine a partire proprio dal Medio Oriente, perché deve dimostrarsi in grado di proporre e gestire un progetto complesso in una regione dove si incrociano molteplici interessi. Serve una cornice strategica che tenga assieme la sicurezza di Israele, i diritti dei palestinesi, i sentimenti dei popoli arabi, in una zona economica crocevia mondiale, al centro delle attenzioni di Cina e Russia. I Patti di Abramo, ad esempio, per funzionare non possono tagliare fuori la Cina e la Turchia a vantaggio dell’India, e così via.

Quando Trump ha parlato di Gaza Beach non scherzava. L’iperbole segnava un binario preciso su cui instradare le relazioni internazionali. Era la carota gettata al mondo. Un messaggio per Mosca e Pechino. Adesso, invece, sono arrivati gli aerei fantasma con il loro carico di distruzione. È anch’esso un messaggio chiaro ad amici e nemici.

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Tags: Donald TrumpVladimir Putin

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