Il 31,7% dei giovani sceglie la professione in base al fattore economico. Il lavoro non è più un obiettivo. In questo modo, però, si rinnega se stessi
I soldi prima di tutto. Secondo un’indagine svolta da ELIS, ente di formazione e consorzio che riunisce 130 grandi gruppi e PMI, è questa la prima motivazione che spinge i giovani a scegliere un lavoro. Per il 31,7% di loro, infatti, sarebbe proprio il fattore economico il principale criterio quando pensano alla professione da intraprendere. Il 23,8%, poi, valuta anche le possibilità di fare carriera.
Un dato che non sorprende, spiega Paolo Crepet, psicologo specializzato in problematiche educative giovanili, in un mondo in cui i protagonisti della scena sono Jeff Bezos e Donald Trump, che fa degli affari la sua guida anche in campo politico, non ci si può aspettare che gli altri seguano criteri, almeno in maggioranza, molto diversi. C’è comunque anche un 8,1% che sogna un lavoro attraverso il quale essere utile agli altri.
Perché i giovani si fanno guidare solo dal criterio economico nella scelta del lavoro?
Parliamo da giorni di Bezos, e ne parleremo ancora. Chi vince nel mondo di oggi non sono i poeti. Chi si stropiccia gli occhi per questo dato, per favore, atterri su questo pianeta. Che questa poi sia l’unica regola del mondo, direi assolutamente no. E neanche che riguardi tutti i giovani.
Sono comunque un terzo degli intervistati, la maggioranza. Cosa ci dice questo dato?
Ci chiediamo come mai i ragazzi non scelgano il lavoro per passione, ma è naturale, se ne mondo di oggi non parliamo d’altro che di soldi. Basta aprire il primo quotidiano e si vedrà che si occupa di Trump. E Trump non parla d’altro che di soldi. Gli affari sono la cifra della sua politica estera, ma lo sono anche per l’Europa: parliamo di dazi, di riarmo, del 5% del PIL per le spese militari. Si tratta di denaro. Questo, però, si paga: tutto questo mondo politico, economico, glamour, non ha più il fascino di prima.
Il contraltare è che solo l’8,1% sogna una professione che permetta di essere utile agli altri. Magra consolazione?
Questo è il 10% su cui dobbiamo puntare. Da una persona che risponde così mi aspetto un futuro qualificante. Non da chi va a fare il primo colloquio di lavoro e dice: “Quanto mi date?”. Oppure da chi chiede di non lavorare venerdì, sabato e domenica, e magari il giovedì di chiudere alle 2 del pomeriggio, facendo lo smart working negli altri giorni. La ricerca dice questo, letta tra le righe: il lavoro non è più un obiettivo. Stiamo troppo bene per andare a lavorare.
Che cosa diventa importante?
Ogni giorno leggiamo sui giornali di qualcuno che lascia Milano per andare in qualche spiaggia dell’Equatore. Sono l’antidoto alle cattive notizie, anche se in realtà non si tratta affatto di buone notizie, perché se se ne vanno i migliori, per chi rimane sarà sempre più difficile. Si celebra la fuga, ma si rischia che sia una fuga verso il nulla: alla fine non sappiamo cosa faccia davvero che prende questa decisione. Io il mondo l’ho girato ed è complicato, anche a Zanzibar. Che cos’è, invece, il lavoro nel senso più nobile del termine? È il futuro, la “macchina” che permette di sognare e di crearlo.
La ricerca segnala che per il 23,8% l’importante è fare carriera, ma c’è anche un 30,6% che chiede di trovare un equilibrio fra vita privata e lavoro. Una ragione un po’ più nobile?
Il mitico equilibrio fra la vita privata e il lavoro ovviamente è una chimera. Vedo persone, anche non più giovani, che a un certo punto decidono di privilegiare la vita privata. Va benissimo, ma la vita privata è condizionata dal tuo tasso di felicità, che è legato a quanto sei riuscito a realizzarti. Si va al parco con il bambino, ma attenzione che dopo diventa noioso. Non si tratta di contrapporre i neoromantici a chi è cinico e si abbruttisce con il lavoro, perché anche questo è un rischio: per guadagnare tanto bisogna fare come Musk, che lavora venti ore al giorno. Il problema è che la realizzazione di sé va perseguita per tutto quello che siamo.
Come dobbiamo leggere, quindi, complessivamente questi dati?
Stiamo tornando indietro. Queste statistiche ci dicono che una civiltà come la nostra, e non parlo solo dell’Italia, sta facendo retromarcia: dopo secoli eravamo riusciti a trasformare il lavoro in qualcosa di creativo, di assoluto, di straordinario, che non solo ti permette di avere il bagno in casa, ma anche di realizzare i tuoi sogni. Invece, dalla fine degli anni Ottanta, è cominciata una sorta di regressione, per cui il lavoro è diventato di nuovo sfruttamento. E quelli che rifiutano il lavoro non sono solo gli operai o la signora che fa le pulizie, ma i figli della buona borghesia, che hanno avuto tutto e niente devono dare.
Come è potuto succedere?
Questo, indirettamente o neanche tanto, l’hanno voluto interi settori dell’economia. Quando il settore bancario riconosce la settimana super corta, è un incentivo a pensare che il lavoro non sia importante e centrale nella vita, ma il contrario. È come dire: “Lavora da me, ti tratto bene, ti do pure quattordicesima, quindicesima, pretendo poco”. Queste aziende autocertificano la loro morte, non hanno bisogno della genialità. Marchionne ha lavorato tanto, ma ha anche portato la Fiat all’apice.
Questo atteggiamento ci danneggia anche dal punto di vista sociale?
Marchionne, che lo si voglia o no, per quanto contestato, è stato un esempio per una intera generazione di dirigenti, ha lasciato tanto. Se poi quel tanto è evaporato nel giro di neanche una generazione, dobbiamo domandarci il perché. La generazione successiva lo guarda come un tipo strano, non vuole avere quel potere, non subisce il fascino di quel tipo di leadership, preferisce andare a Rimini con la fidanzata.
(Paolo Rossetti)
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