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Home » Politica » CONFLITTI D’INTERESSE/ Fininvest? Prima c’è la magistratura…

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CONFLITTI D’INTERESSE/ Fininvest? Prima c’è la magistratura…

Stefano Bressani
Pubblicato 14 Luglio 2025
Sergio Mattarella, presidente della Repubblica, mentre presiede il Csm. alla sua destra, il vicepresidente Fabio Pinelli (Ansa)

Sergio Mattarella, presidente della Repubblica, mentre presiede il Csm. alla sua destra, il vicepresidente Fabio Pinelli (Ansa)

Si torna a parlare di conflitto d'interesse dopo l'uscita di Piersilvio Berlusconi. Ma ce n'è uno poco affrontato in Italia

Piersilvio Berlusconi è tornato a parlare di un suo possibile impegno politico e quindi – inesorabilmente – a far parlare dell’immanenza ultratrentennale del conflitto d’interesse italiano per definizione: quello fra le attività finanziarie e televisive di Fininvest e quelle politico-istituzionali di Forza Italia, il partito fondato da Silvio Berlusconi – tre volte premier – oggi partner della maggioranza di destra-centro che regge il Governo.


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Berlusconi Jr è stato abile nello stornare il diversivo “ius scholae”, peraltro non nuovo sulle labbra del vicepremier Antonio Tajani; e anche nell’additare – fra i forzisti criticati – Maurizio Gasparri, che presta tuttora il nome alla regulation del duopolio Rai-Mediaset. Il Ceo di Cologno, d’altronde, è uscito allo scoperto non così a sorpresa.


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Non è la prima volta che l’Azienda-Partito si pone in allerta politica – se non in assetto “combat ready” – allorché la Legge di bilancio per l’anno successivo entra in cantiere operativo, facendo tornare d’attualità l’assestamento del canone Rai. Facendo riaffiorare, in concreto, l’ipotesi di abbassarlo, innescando automaticamente un effetto domino sull’algoritmo-risorse per le tv commerciali. Mettendo dunque a rischio il bilancio Mfe, la capogruppo televisiva di Fininvest.

Nessun stupore che Piersilvio – che condivide con la sorella maggiore Marina l’eredità del padre-tycoon – abbia voluto ricordare alla premier Giorgia Meloni i beni politici lasciati dal Cavaliere: la “proprietà” di una squadra di parlamentari decisivi per la maggioranza sia a Roma che a Strasburgo. La proiezione politica a tutto campo della famiglia Berlusconi rimane particolarmente rilevante nei suoi riflessi imprenditoriali laddove Mfe – lasciatasi ormai alle spalle l’assalto di Vivendi – sta sviluppando una strategia di crescita europea con il trasferimento della holding in Olanda e l’offerta sulla tedesca ProSiebensat.1.


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Berlusconi Jr, comunque, non ha fatto nulla per nascondere di considerare FI alla stregua di una sua azienda controllata. E questo avviene 35 anni dopo il decreto Mammì, il passo politico che ha gettato le basi per la discesa in campo del Cavaliere e quindi per la nascita del conflitto d’interesse per eccellenza nella “seconda repubblica”. Ma questo accade anche quando è sulla griglia politico-mediatica l’altro grande conflitto d’interesse fondativo della Costituzione “materiale” in vigore, scritta nei primi anni 90: quello nato – a ruota di Mani Pulite – per azione e a vantaggio della magistratura nazionale.

La motivazione neppure troppo implicita della riforma della giustizia – giunta allo scontro finale fra maggioranza di destra-centro e “terzo potere” giudiziario dall’altro – è l’avvio dello scioglimento di un conflitto d’interesse politico-istituzionale via via avviluppatosi in trent’anni (la stessa finalità è perseguita dal progetto di riforma sul premierato).

Il fulcro di quel conflitto si è spostato dai palazzi di giustizia – interventisti fino a farsi in alcune fasi demiurghi nella vita politico-finanziaria nazionale – a un triangolo di poteri statali nella capitale: il Quirinale, il Consiglio Superiore della Magistratura, infine la Corte Costituzionale.

La spinta dell’ordine giudiziario ad affermare la dominanza del proprio potere separato verso il potere legislativo e quello esecutivo è stata affiancata da una marcata accentuazione delle prassi semipresidenzialiste del Quirinale (anzitutto nel suo ruolo crescente di “forca caudina” nella promulgazione di decreti e leggi), Una mutazione di ruolo costituzionale materiale che non è stata priva di riflessi diretti sul Csm, l’organo di autogoverno dei magistrati: di cui il Presidente è capo, laddove la Carta gli affida comunque un ruolo di garanzia contro rischi di abuso da parte dell’ordine giudiziario.

Una dinamica ulteriore ha interessato la Consulta: sempre più profilata in termini politico-mediatici come sede di un contro-potere di condizionamento di merito (spesso di netto contrasto) delle scelte del Parlamento e del Governo, incluso l’ambito della democrazia diretta referendaria. È nella Corte costituzionale che tendono a emergere sempre di più due profili di conflitto d’interesse che non appaiono più solo potenziali: quello dello stesso ordine giudiziario e quello del Quirinale. Entrambi detengono – unitamente – un potere di fatto autonomo/discrezionale di nomina della maggioranza qualificata della Consulta.

Cinque giudici costituzionali sono scelti autonomamente all’interno della Corte di Cassazione, del Consiglio di Stato e della Corte dei Conti. Poche migliaia di magistrati ordinari, amministrativi e contabili, continuano a indicare – in chiave nettamente corporativa – loro esponenti capaci di condizionare in modo sempre più rilevante la vita politica del Paese. Altri cinque giudici vengono designati direttamente da un Presidente della Repubblica a sua volta sempre più “semipresidenziale di fatto”; e a sua volta presidente del Csm.

Il Parlamento – centro della sovranità democratica – dal 1955 in poi continua a poter nominare soltanto 5 giudici su 15 e a maggioranza qualificata: ciò che favorisce lunghe “vacatio” o compromessi opachi. Il tutto ha finito per rendere di fatto la democrazia rappresentativa sovrana minoritaria nei confronti dell’inquilino del Quirinale (che nella Seconda Repubblica è sempre uscito dalle fila del centro-sinistra) e della magistratura, a lungo dominata dalle componenti più politicizzate collaterali alla sinistra.

La situazione corrente vede in ogni caso al Quirinale un ex giudice costituzionale espresso dal principale partito dell’odierna opposizione; nominato alla Consulta dal Parlamento nell’autunno 2011 con maggioranza minima, nel pieno della crisi dello spread.

Sergio Mattarella è stato poi eletto al Quirinale come ultimo esito del “patto del Nazareno” fra Silvio Berlusconi e il Pd di Matteo Renzi (un non parlamentare catapultato da Giorgio Napolitano a palazzo Chigi pur senza maggioranza piena dopo il voto del 2013). Al vertice della Corte siede intanto oggi – fino all’autunno 2026 – un ex alto magistrato della Cassazione, nominato dai colleghi con il placet del Quirinale nell’ultimo scorcio di quel quinquennio “dem”.

Può essere solo aneddotico – nella cronaca di questi giorni – che il procuratore capo di Napoli Nicola Gratteri, tuttora in carica, abbia accettato l’offerta di una rete tv nazionale di condurre un programma di approfondimento giornalistico (si suppone anche sull’attualità politico-giudiziaria). Comparirà comunque su una rete diversa da Mediaset, nemico-bersaglio costante di molti suoi colleghi nella “guerra dei trent’anni” che ha intessuto la “seconda repubblica”. Una guerra civile e istituzionale fra conflitti d’interesse. Congelata nel 2011 da un “cessate il fuoco” negoziato fra Napolitano e Berlusconi: mentre la Casa Bianca di Barack Obama attaccava l’Italia con un “dazio” del 600% sul debito pubblico.

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Tags: Silvio BerlusconiGiorgio NapolitanoNicola GratteriForza ItaliaPdQuirinaleGoverno MeloniMatteo RenziAntonio TajaniGiorgia MeloniMediasetSergio Mattarella

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