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Home » OPIS » I NUMERI/ “Working poor”, lavorare e restare poveri (23%): transizione green e IA non aiutano

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I NUMERI/ “Working poor”, lavorare e restare poveri (23%): transizione green e IA non aiutano

Antonella Rocca
Pubblicato 18 Luglio 2025
Ansa

Ansa

Dopo la pandemia in Italia sale l’occupazione, ma non i redditi: molti lavoratori a rischio povertà. La transizione ecologica e l’IA non li aiutano

Negli anni successivi alla pandemia da Covid-19, il mercato del lavoro italiano, in linea con quello di molti altri Paesi europei, ha registrato una rapida ripresa, evidenziata da un incremento dei tassi di occupazione e da una diminuzione della disoccupazione.

Tuttavia, questa ripresa economica non si è tradotta in un miglioramento delle condizioni lavorative. Come documentato dall’Organizzazione Internazionale del lavoro (ILO) nel recente Rapporto mondiale sui salari 2024-25, in Italia i salari reali sono rimasti pressoché invariati sin dagli anni Novanta e, rispetto al 2008, risultano addirittura inferiori dell’8,7% in termini di potere di acquisto, ovvero al netto dell’inflazione.


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Tra le principali cause di questo fenomeno vi sono la stagnazione della produttività del lavoro e del PIL, come segnalato anche dall’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE). Negli ultimi 20 anni, infatti, questi indicatori hanno mostrato una crescita minima o nulla.

Una delle conseguenze più gravi di tale situazione è l’elevata incidenza dei cosiddetti working-poor: persone che, pur lavorando, non riescono ad uscire da una condizione di povertà. Secondo gli ultimi dati Eurostat, in Italia l’11,3% dei lavoratori è considerato working-poor se si adotta una definizione di povertà basata sul reddito familiare equivalente; tale percentuale sale al 23,1% se si considera solo il reddito individuale. La Figura 1 mostra i tassi di working-poor nei diversi Paesi europei nel 2016, e da allora la situazione è rimasta sostanzialmente stabile.


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La povertà familiare si definisce in base a un reddito familiare equivalente inferiore al 60% della mediana della distribuzione dei redditi. Il reddito equivalente si calcola dividendo il reddito complessivo della famiglia per un coefficiente che tiene conto del numero e dell’età dei componenti.

La povertà individuale, invece, si riferisce al solo reddito personale, al netto dei trasferimenti, ed è anch’essa calcolata rispetto al 60% della mediana dei redditi individuali. Entrambe queste misure rientrano nel concetto di povertà relativa, che dipende dal grado di disuguaglianza nella distribuzione dei redditi all’interno di una stessa società.


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Sempre secondo Eurostat, nel 2023, l’indice di Gini che misura la disuguaglianza dei redditi in Italia era pari al 31,5%. In confronto agli altri Paesi europei, solo la Bulgaria, i Paesi baltici, il Portogallo e la Grecia presentavano valori maggiori. A pesare su questo risultato sono le profonde disuguaglianze interne al nostro Paese, sia in termini territoriali che tra gruppi diversi di individui rispetto all’età, al genere, al Paese di origine ed al livello di istruzione.

Le categorie più penalizzate nel mercato del lavoro risultano essere donne, giovani, migranti e persone con basso livello di istruzione. Le ragioni sono molteplici:

Giovani: spesso privi di esperienza lavorativa e delle competenze richieste dal mercato, a causa di un sistema formativo non sempre allineato alle esigenze occupazionali;

Donne: ostacolate dalla difficoltà di conciliare lavoro e vita familiare, aggravata dalla carenza di servizi di supporto;

Migranti: spesso penalizzati dalla scarsa padronanza della lingua locale e dal mancato riconoscimento delle qualifiche e dell’esperienza maturata all’estero;

Persone poco istruite: limitate a posizioni lavorative più vulnerabili all’automazione e alla precarietà.

A contribuire all’elevato numero di working poor sono state senz’altro anche le recenti riforme del mercato del lavoro. Con l’obiettivo di introdurre flessibilità, hanno spesso generato una segmentazione del mercato del lavoro che si caratterizza per vedere, da un lato, i lavoratori a tempo indeterminato con adeguate tutele e salari; dall’altro, un’ampia fascia di lavoratori precari, sottoccupati o impiegati senza contratto formale, privi delle principali garanzie sociali.

Un recente studio, basato su dati EU-SILC (l’indagine europea sulle condizioni di vita e sul reddito delle famiglie) riferiti alla componente di indagine italiana, ha evidenziato che il principale fattore di rischio per diventare working-poor è l’aver vissuto periodi di disoccupazione, in particolare se prolungati.

Sebbene il tasso di disoccupazione sia diminuito negli ultimi anni, la disoccupazione continua a colpire soprattutto i gruppi vulnerabili. La Figura 2 riporta le curve di Kaplan-Meier relative alla durata della disoccupazione, in funzione di genere, età, titolo di studio e area geografica. L’altezza delle curve rappresenta la quota di individui ancora disoccupati in funzione del periodo temporale.

Mentre tra uomo e donna non si riscontrano differenza significative nelle funzioni di permanenza nello status di disoccupato (Figura 2a), guardando al titolo di studio (Figura 2b), possiamo dire che un’istruzione elevata rappresenta un fattore fondamentale nel garantire una rapida uscita dalla disoccupazione, mentre la residenza nel Sud del Paese, o ancor più nelle Isole (Figura 2c), è sistematicamente associata ad una più prolungata disoccupazione, con un gap che va anche ad accrescersi quando la permanenza nella condizione di disoccupazione è superiore a un anno.

Con riferimento, invece, alla situazione in base all’età (Figura 2d), la figura potrebbe indurre a credere che gli adulti siano più penalizzati dei giovani. In realtà, siccome il dato fa riferimento alla durata della disoccupazione vissuta negli ultimi 5 anni, esso ci indica soltanto che l’uscita dallo stato di disoccupazione è più difficile per gli adulti, mentre per i giovani, nella maggior parte dei casi, il loro trascorso nella condizione di disoccupato si riferisce al periodo di transizione scuola-lavoro, del tutto fisiologico per coloro che, avendo completato gli studi, si affacciano sul mercato del lavoro alla ricerca della prima occupazione.

Nell’ultima parte della figura, infine (Figura 2e), è riportata la relazione tra la durata della disoccupazione ed il tipo di contratto di lavoro dichiarato dal rispondente al momento dell’intervista. Il contratto di lavoro temporaneo si conferma come quello più disponibile, in quanto garantisce un’uscita più veloce dalla disoccupazione, mentre la durata più lunga del periodo di disoccupazione si associa a coloro che al momento dell’intervista lavorano senza un contratto formale. Ciò potrebbe indicare il minore potere negoziale di queste persone, prevalentemente con competenze ridotte, che, in assenza di possibilità migliori, si accontentano di lavorare senza un contratto.

Ad avere un trascorso di disoccupazione più lungo vi sono anche coloro che hanno intrapreso un’attività come lavoratore autonomo. Probabilmente, per alcuni, la scelta di un percorso di lavoro autonomo è stata dettata dall’assenza di opportunità di inserimento come lavoratore dipendente. Si può infatti notare che, tra essi, la quota di coloro che escono dallo status di disoccupazione si mantiene a livelli sostanzialmente simili a quelli delle altre tipologie di lavoratori.

Figura 1. Povertà lavorativa nei paesi dell’Unione Europea calcolata in percentuale su tutte le persone occupate di età non inferiore ai 18 anni nel 2016 (ultimo dato disponibile). 

Figura 2 – Funzioni di sopravvivenza Kaplan-Meier per genere, livello di istruzione (ISCED 0-2: basso, ISCED 3-4 medio, ISCED 5-8 elevato), macro-regione di residenza, classe di età e tipo di contratto.

L’analisi compiuta merita qualche riflessione. Sebbene negli ultimi anni i tassi di occupazione siano consistentemente aumentati, la stagnazione nella produttività e l’assenza di un incremento significativo nel numero di ore lavorate, unitamente agli alti livelli di disuguaglianza dei redditi e di working-poor ci indicano che la qualità del lavoro si sta notevolmente deteriorando e aumenta la fragilità di coloro che lavorano. Le attuali sfide dettate dalla transizione ecologica e dall’intelligenza artificiale rischiano di provocare un ulteriore peggioramento delle condizioni degli attuali lavoratori, oltre che un nuovo aumento dei tassi di disoccupazione.

Per non farci trovare impreparati in queste sfide, occorre iniziare a pianificare la riqualificazione dell’attuale manodopera, aggiornare i contenuti ed i metodi del sistema educativo e puntare sull’innovazione, per preparare la popolazione degli attuali lavoratori e disoccupati ad affrontare queste sfide. Ciò contribuirebbe anche ad accrescere la produttività del Paese e a vincere le ulteriori sfide che, in un contesto internazionale così difficile ed instabile, di certo ci troveremo ad affrontare.

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