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Home » Lavoro » I NUMERI DEL LAVORO/ Il congedo di paternità non basta a sbloccare l’occupazione femminile

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I NUMERI DEL LAVORO/ Il congedo di paternità non basta a sbloccare l’occupazione femminile

Giuliano Cazzola
Pubblicato 29 Luglio 2025
Foto di  Anastasia  Shuraeva (Pexels)

Foto di Anastasia Shuraeva (Pexels)

L'occupazione delle donne continua a scontare il lavoro di cura familiare e non sembra bastare il congedo di paternità

Analizzando i dati per genere dell’occupazione nel primo trimestre del 2025, si osserva un aumento dell’occupazione sia tra le donne che tra gli uomini, sebbene con lievi differenze percentuali. Le donne occupate ammontano a 10 milioni e 249mila unità (+207mila), mentre gli uomini raggiungonoi 13 milioni e 827mila di unità (+225mila). Nello stesso arco temporale risultano in cerca di lavoro 1 milione 758mila persone; nel 2024 erano 217mila in più. Il tasso di disoccupazione in età15-74 anni anni, ottenuto come rapporto tra il numero di disoccupati e la forza lavoro (occupati+disoccupati) è pari al 6,8%,in diminuzione di 0,9 punti rispetto allo stesso periodo del 2024.


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Anche con riferimento al quinquennio 2019-2024, l’occupazione femminile registra una crescita più sostenuta con un tasso di crescita del 3,9%, superiore al 3,2% degli uomini. Il positivo andamento si riverbera su tutti i principali indicatori del mercato del lavoro. Aumenta infatti il tasso di occupazione, passato dal 50,1% del 2019, al 52,2% del 2023 al 53,6% del 2024 (riferimento al terzo trimestre), mentre si riduce sensibilmente quello di disoccupazione, passato dal 10,3% del 2019, all’8,7% del 2023 al 6,2% del 2024.


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Al 1° gennaio 2024, tuttavia, sono oltre 7 milioni e 800 mila le donne inattive in Italia tra i 15 e i 64 anni. Il 39% di questa cifra si colloca tra i 50 e i 64 anni, il 28% tra i 15 e i 24, il 21% tra i 35 e 49 e quindi il 12,5% tra i 25-34 anni. Il dato nazionale rappresenta, tuttavia, solo una media di fenomeni profondamente eterogenei sul territorio. Superano il milione di donne inattive la Campania e la Lombardia, seguite da Sicilia (918 mila), Lazio (725 mila), Puglia (699 mila) e Toscana (511 mila). Al di sotto delle 500 mila unità si attestano tutte le altre regioni.

La caratteristica dell’occupazione femminile nei confronti dell’ingresso nel mercato del lavoro è quella di essere condizionata, in particolare, dal contesto familiare. La presenza e il numero di figli incidono sulla tipologia di lavoro che le donne inattive sarebbero disposte ad accettare.


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Sugli aspetti della inattività femminile si è diffuso un report Inapp sottolineando in primo luogo che non si favorisce l’accesso al mercato del lavoro (magari con incentivi per l’assunzione di lavoratrici) delle donne se non si affrontano le più importanti motivazioni che inducono l’inattività anche in presenza di una disponibilità condizionata al lavoro.

Esiste una relazione tra la potenziale attivazione femminile e la dotazione dei servizi territoriali adeguati a garantire la sostituzione della funzione di cura esercitata dalla donna, ma, se non si redistribuiscono i ruoli all’interno della coppia, la diffusione dei servizi diventa prima che un aiuto per l’accesso al lavoro delle donne una riconferma dell’estraneità dell’uomo dal lavoro di cura dei figli e degli anziani e dalla conduzione del menage famigliare.

Per modificare i rapporti all’interno della coppia è invalsa la sperimentazione dei congedi di paternità, il cui utilizzo è consentito, in alternativa tra i genitori. Di conseguenza, il congedo indennizzato all’80% può essere utilizzato sia dalle madri che dai padri (per le mensilità non trasferibili all’altro genitore, in modalità ripartita tra gli stessi o da uno soltanto di essi) entro il sesto anno di vita del figlio (o entro 6 anni dall’ingresso in famiglia del minore in caso di adozione o di affidamento e, comunque, non oltre il compimento della maggiore età).

Nel XXIV rapporto dell’Inps è pubblicato un focus con riguardo all’utilizzo del congedo da parte dei due genitori. Ma il dato più significativo, in relazione all’esigenza di una più equa ripartizione dei ruoli, è quello del congedo obbligatorio di paternità per i lavoratori dipendenti consistente nell’astensione obbligatoria di 10 giorni dal lavoro, che possono essere usufruiti tra i due mesi precedenti e i cinque successivi al parto. Se ne ha diritto anche in caso di adozione e affidamento.

La norma è stata introdotta quando ci si è resi conto che la possibilità di uso alternativo tra la donna e l’uomo finiva in prevalenza a gravare sulla donna. Così, con una logica poco più che simbolica, si è resa obbligatoria l’astensione di 10 giorni per l’uomo.  L’analisi dei dati compiuti dall’Inps, tuttavia, rivela un quadro articolato dell’utilizzo delle giornate disponibili di congedo di paternità. In media, i padri lavoratori usufruiscono di 7,17 giorni di congedo, con una deviazione standard di 2,65 giorni, indicando una variabilità significativa nei comportamenti individuali.

Particolarmente rilevante è il fatto che la fruizione dell’intero periodo di 10 giorni rappresenta la modalità più frequente nella distribuzione, con circa un padre su quattro che sceglie di utilizzare completamente il congedo a disposizione. Ampliando ulteriormente l’analisi, emerge che il 66,21% dei beneficiari si astiene dal lavoro per almeno 7 giorni.

Dall’analisi complessiva emerge un quadro positivo, ma con significative aree di miglioramento. Se da un lato la maggioranza dei beneficiari sceglie di fruire di una porzione sostanziale del periodo disponibile, dall’altro lato un dato particolarmente rilevante è che circa il 30% dei padri utilizza meno della metà dei giorni a disposizione.

Le ragioni del ricorso parziale al congedo parentale possono essere diverse, tra cui le pressioni presenti nell’ambiente di lavoro, che scoraggiano assenze prolungate – soprattutto in determinati settori o ruoli professionali – e la persistenza di stereotipi di genere che continuano a influenzare la ripartizione dei compiti di cura all’interno della coppia.

Le caratteristiche lavorative mostrano effetti importanti: ad esempio, avere un contratto a tempo indeterminato o lavorare a tempo pieno è associato a un maggior numero di giorni di congedo fruiti, così come occupare una posizione impiegatizia o dirigenziale/quadro piuttosto che essere un blue collar. Al contrario, livelli retributivi più elevati sono correlati a una minore fruizione del congedo.

Considerando che il congedo in esame è interamente indennizzato (al 100%), non è plausibile attribuire questa relazione a un maggiore costo-opportunità in termini economici. È più verosimile che entrino in gioco altri fattori, quali una cultura organizzativa meno favorevole alla fruizione del congedo da parte dei lavoratori ad alto reddito, o una maggiore pressione lavorativa e responsabilità professionali che ostacolano l’assenza dal lavoro.

Si osserva, inoltre, che i lavoratori di imprese piccole (<16 addetti) e medie (16-150 addetti) usufruiscono rispettivamente di 0,03 e 0,10 giorni in più di congedo rispetto ai colleghi impiegati in grandi aziende (categoria di riferimento). Questa evidenza contrasta con quanto riportato nei precedenti Rapporti annuali dell’Inps, secondo cui il tasso di utilizzo (take-up) della misura tende a essere maggiore nelle grandi imprese, generalmente caratterizzate da strutture organizzative più consolidate e politiche di welfare aziendale più sviluppate.

Pertanto, la differenza riscontrata potrebbe riflettere effetti di selezione: nelle piccole e medie imprese potrebbero richiedere il congedo principalmente i lavoratori che lo apprezzano maggiormente e intendono fruirne per un numero elevato di giorni, mentre nelle grandi aziende lo richiederebbero anche coloro che lo valutano meno e desiderano usufruirne per periodi più brevi.

Dal punto di vista territoriale – certifica il XXIV Rapporto – emergono differenze significative: rispetto al Centro, i lavoratori del Nord-Est e del Nord-Ovest fruiscono in media di un numero maggiore di giorni di congedo (rispettivamente +0,52 e +0,43 giorni), mentre nelle Isole e nel Sud la fruizione è inferiore (-0,38 e -0,36 giorni). Questo divario potrebbe riflettere non solo differenze nell’organizzazione del lavoro e nella diffusione delle politiche aziendali di conciliazione, ma anche fattori culturali più profondi. In particolare, nelle regioni meridionali potrebbero essere più radicate norme sociali tradizionali che attribuiscono principalmente alle madri il ruolo di cura dei figli, limitando così la propensione dei padri a ricorrere a tutti i giorni fruibili di congedo.

In linea con questa interpretazione, anche la cittadinanza risulta un fattore significativo: i padri con background migratorio fruiscono in media di meno giorni rispetto a quelli autoctoni, un dato che può riflettere modelli culturali differenti, anche se non è possibile escludere l’influenza di barriere informative o la percezione di una maggiore vulnerabilità lavorativa.

In particolare, è interessante osservare se la fruizione del congedo avviene prevalentemente in prossimità della nascita del figlio o se viene posticipata ai mesi successivi.

Ciò può evidenziare eventuali esigenze di supporto immediato nei primi giorni di vita del neonato o la necessità di assistenza in fasi successive, come il rientro della madre al lavoro o l’adattamento alle nuove routine familiari.

I dati riportati nel grafico evidenziano come il 60,13% dei padri beneficiari del congedo ne facciano uso entro il primo mese dalla nascita del figlio/a (rappresentando la modalità più frequente all’interno della distribuzione), mentre il 21,77% lo fruisce durante il secondo mese successivo alla nascita del bambino/a. Nella restante coda della distribuzione, si osserva che il 7,44% dei padri richiede il congedo durante il terzo mese di vita del figlio, il 5,62% durante il quarto e il 5,04% attende il mese finale della finestra temporale consentita.

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Tags: Inps

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