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Home » Cultura » Letture e Recensioni » LETTURE/ “Il piacere della lettura” secondo Proust, esplorare un io più vero

  • Letture e Recensioni
  • Cultura

LETTURE/ “Il piacere della lettura” secondo Proust, esplorare un io più vero

Joshua Nicolosi
Pubblicato 2 Agosto 2025
Marcel Proust (1871-1922) (foto dal web)

Marcel Proust (1871-1922) (foto dal web)

Leggendo il Ruskin di “Sesamo e gigli”, Proust capì che una nuova verità era finalmente raggiungibile: quella della lettura stessa, cioè del nostro io

Verso quale esotica sponda, su quale sconosciuta increspatura del mare, fermeranno i loro passi Edmond Dantès e Haydée salpando via dall’isola di Montecristo e da un passato di tormento?

A quale destino, di condanna o di riscatto, farà appello Tanja, la sfortunata figlia di Živago e Lara a cui Pasternak regala l’ultimo, fugace scorcio del suo romanzo principe?


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In quale stazione esistenziale sosterà Holden dopo il poetico riappacificarsi con la sorellina? Nello sprofondo di una crisi ancora più cupa, tra le pieghe di una mente compromessa, o su un arcobaleno di nuovi colori?

Vorremmo poter rispondere. Aggrapparci ad inedite continuazioni, a storie mai scritte da materializzare nello spazio di una balenante fantasia. Vorremmo non abbandonarli mai, quegli affetti di carta. Conoscere le loro vicissitudini oscure, i non detti, le emozioni e le parole tenute nascoste, talvolta per un tempo persino difficile da ricordare. Ma è un cruccio, in fondo. Uno di quelli per cui, forse, non esiste rimedio. Che, tuttavia, assilla, avvolge, gratifica. Un nodo irrisolvibile che, miracolosamente, finisce per bastare a sé stesso.


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Di fronte a questo medesimo bivio, al paradosso di una curiosità irrealizzata, si trovò, anche e soprattutto, Marcel Proust. La questione, a dire il vero, suscitò in lui un tale coinvolgimento da spingerlo ad infrangere una delle grandi regole non scritte del mondo letterario.

Nel 1906, nella sua edizione commentata di Sesamo e gigli di John Ruskin, l’autore francese scrisse un’introduzione al testo del tutto singolare: non una parola sul contenuto, sul contesto in cui quell’opera era maturata. Non una citazione, non un elogio, non un abbozzo di immersione tra i meandri della sua poetica. Diede vita, piuttosto, ad un saggio. Quasi ad un flusso di coscienza sul senso, sull’estatica meraviglia del leggere.


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Quel saggio è oggi un volume dal titolo Il piacere della lettura: snello, ma denso di sentimento. Un meraviglioso antecedente, tematico e stilistico, della Recherche. Nel quale Proust seppe indagare, con la cura e la grazia di un archeologo delle lettere, le ragioni radicali, gli impulsi insopprimibili che ci conducono a gettare la nostra anima – e la sua – tre le pagine di un libro.

Ripercorrendo anni di spensieratezza e di sana voracità intellettuale, le fronde ombrose e le casupole abbandonate di Combray, le stanze di broccato e gli orologi a pendolo che si dissolvevano alla presenza della poesia dell’inchiostro. E persino lo stigma di chi lo rimproverava di trascurare i piaceri della vita all’aria aperta in cambio di un lumicino notturno che provocava mal d’occhi. Il disperato bisogno di un ritaglio di solitudine.

Perché è questo il potere che Proust attribuisce alla lettura: la capacità di rendere vivido, fruttuoso, degno di essere esperito persino l’isolamento. Non può esserci, anzi, alcuna autentica lettura senza tale condizione: interiorizzare il genio delle parole altrui è il più grande stimolo alla nostra intima, irripetibile attività creatrice. L’innesco di un’intuizione pura, incontaminata, florida.

Che non nasce, come lo stesso Ruskin aveva suggerito trovando il disappunto dello scrittore transalpino, semplicemente da un dialogo a distanza, quanto da un pervasivo desiderio di ispirazione. Che non può, e non deve essere in alcun modo, alterato da altre condizioni al di fuori della solitudine.

“A volte, la verità è lontana, celata in un luogo di difficile accesso. Allora è un documento segreto, una corrispondenza inedita, un memoriale a poter gettare su certi caratteri una luce inattesa, di cui è difficile venire a conoscenza. Che felicità, che balsamo per un animo stanco di cercare la verità in sé stesso, dirsi che si trova fuori di lui, nelle pagine di un in-folio gelosamente custodito in un convento olandese, e se, per raggiungerla, bisogna fare un po’ di fatica, si tratterà di una fatica esclusivamente materiale, ma per il pensiero rappresenterà una piacevole distensione”.

È proprio in quel protendersi verso l’oggetto magico del nostro sentire che, a detta di Proust, ognuno di noi può riconquistare un proprio spazio di felicità. Distanti dalle frenesie, dalle pretese, dagli equivoci, dalle etichette stringenti, dai codici di comportamento consumati.

Ciò che la letteratura ci invita a perseguire non è il distacco tout court dalle altre realtà del nostro vivere. Semmai, dalle loro nocive declinazioni. Dall’idea distorta che il sé non vada curato, che possa esistere e trarre beneficiare solo nella cieca subordinazione ad altri sé.

E non ci invita nemmeno, sottolinea l’autore, a trasformare la lettura in un surrogato della vita. Ma in un suo potenziamento: “Fintanto che la lettura è per noi l’iniziatrice le cui magiche chiavi dischiudono al fondo di noi stessi dimore in cui non saremmo stati in grado di penetrare, il ruolo che essa svolge nella nostra vita è salutare.

Diventa invece pernicioso quando, al posto di risvegliarci alla vita personale dello spirito, tende a sostituirsi ad essa, quando la verità non ci appare più come un ideale che possiamo realizzare solo tramite l’intimo progresso del nostro pensiero e lo slancio del nostro cuore, ma come qualcosa di materiale, depositato nelle pagine dei libri come un miele già distillato da altri, che dobbiamo solo prenderci la briga di attingere sugli scaffali delle biblioteche per poi degustarlo passivamente, in perfetto riposo di corpo e spirito”.

È l’immaginazione che ci vivifica. Travalicare i confini dell’opera, intravedere in noi infiniti nuovi inizi anche dinanzi alle conclusioni più incontrovertibili. Conferire significato agli addii più dolorosi, a quello che istintivamente ci porta a riavvolgere il nastro e tornare all’inizio, a desiderare di annullare tutto quello che già conosciamo di un romanzo o di una pièce per riviverlo con immutata innocenza.

Ma poi, il più delle volte, resistiamo. Perché ciò che resta, dopo il saluto a chi tra le pagine ci ha donato una così piacevole compagnia, è più forte.

“Avremmo tanto voluto che il libro continuasse e, se proprio era impossibile, avere altri ragguagli su tutti quei personaggi, sapere qualcosa della loro vita di adesso, impiegare la nostra in cose che non fossero totalmente estranee all’amore che ci avevano ispirato e il cui oggetto ci veniva improvvisamente a mancare, insomma non aver amato invano, per un’ora, creature che domani sarebbero state solo un nome su una pagina dimenticata.

Ma il ricordo di quelle letture meravigliose deve restare una benedizione per tutti noi: ciò che esse lasciano è soprattutto l’immagine dei luoghi e dei giorni in cui le abbiamo fatte. Forse i ricordi che una dopo l’altra mi hanno restituito avranno a loro volta incantato il lettore e l’avranno portato poco a poco, indugiando per viali fioriti e solitari, a ricreare nel suo animo l’atto psicologico originario chiamato Lettura”.

Siamo noi il fine della lettura. Ciò che siamo stati e ciò che non saremo più. Un cielo sospeso tra tutti i piani del tempo. Un’altalena che oscilla tra il nostro essere qui e il nostro essere altrove: “Le opere antiche non hanno, per noi, solo la bellezza che seppe infondervi la mente che le creò. Ne acquisiscono un’altra, ancora più commovente, dal fatto che la loro stessa materia è come uno specchio della vita.

Una tragedia di Racine, un volume delle memorie di Saint-Simon somigliano a belle cose che oggi non si fanno più. Il linguaggio in cui sono state scolpite da quei grandi artisti ci fa commuovere come la vista di certi marmi, oggi inusuali, impiegati dagli artefici di un tempo. Tutt’intorno i giorni attuali, i giorni che stiamo vivendo, circolano, si affollano ronzando attorno alle colonne, ma lì di colpo si fermano, fuggono come api cacciate via; infatti non stanno nel presente, quelle alte e affusolate isole di passato, ma in un altro tempo dove al presente è vietato entrare.

Ma, interponendosi tra loro, esse li scostano, riservando con tutto il loro spessore sottile un posto inviolabile al Passato; un Passato che si affaccia familiarmente al cuore del presente, con quel colore con un po’ irreale delle cose che una specie di illusione ci fa vedere a qualche passo, mentre in realtà sono situate a parecchi secoli di distanza”.

 

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