Dov’è che i sogni vanno a finire quando il filo d’aquilone che li teneva legati alla fantasia si spezza? Forse qualcuno, come si fa svogliatamente con le foglie, li raccoglie per strada, e li accatasta in un deposito delle utopie che non ha finestre. O, forse, invece, tornano là dove avevano sentito l’impulso di muoversi per planare sulla mente degli uomini. Si confondono con la vita e con il suo brulicare. Si condensano nella forma riconoscibile di un archetipo. Quello del sogno americano, ad esempio. E lasciano dietro di sé l’apparenza, l’illusione di poterli facilmente ritrovare. Accovacciati sul grattacielo più alto di New York, sotto la coltre di neve delle Rocky Mountains o sul dorso di un tramonto che affoga sotto un molo che scruta il Pacifico.
Ma è proprio in quel momento, quando sembrano a portata di mano, finalmente fissati in una qualche aura di riconoscibilità dalla storia o dalla letteratura, che iniziano a divincolarsi e a fare sfoggio di un colpo di reni felino. Si diradano e invitano i loro cercatori a guardare altrove in quel continente, l’America, che è metafora di ogni Paese. Scrigno di tutti gli altri sogni. Per poi ricomparire, a sorpresa, dove mai si sarebbe scommesso di scorgerli: sulle strade polverose che recano ancora la traccia del passaggio di uno sperone, nella vicenda di un emigrato senza nome o in una sperduta cittadina nel sud della Georgia. O, almeno, dove Francis Scott Fitzgerald finì per trovarne ciò che rimaneva nel 1922, quando per i tipi di Scribner’s pubblicò la raccolta Racconti dell’età del jazz, nella quale, specchio ineguagliato del furore e del senso di decadenza dei ruggenti Anni Venti americani, confluirono diversi testi precedentemente editi su rivista.
E proprio in una sperduta cittadina della Georgia l’autore de Il grande Gatsby immaginò di dare i natali a Jim Powell, un personaggio così prosaico e inconcludente da meritarsi l’appellativo di Patata Lessa nell’omonimo racconto che significativamente apre la silloge. Uno sgraziato e malinconico giovanotto che perfino le cronache di quartiere avrebbero meticolosamente evitato di mettere al centro dei loro squallidi quadretti, e che, invece, nelle sapienti mani dello scrittore statunitense divenne l’incarnazione più pura dell’istinto onirico e della disillusione. Del resto, chi può permettersi di sognare continuamente se non chi sente di non aver nulla da perdere?
“Jim era una patata lessa. Torno a scriverlo perché suona così bene, quasi come l’inizio di una fiaba e come se Jim fosse simpatico. In qualche modo, mi dà un ritratto di lui, con la faccia rotonda e appetitosa. Ma Jim era alto e magro e chino in avanti a forza di star piegato sui tavoli da biliardo, e corrispondeva a ciò che al Nord, dove non vanno per il sottile, definirebbero uno scansafatiche”. I sognatori, specie quelli involontari, che sognano di sognare, che sanno di volere senza saper individuare il cosa, si riconoscono agevolmente. Niente, di quello che gli sta intorno, combacia con la loro figura, con le loro movenze. Nulla sembra potergli davvero appartenere. “Quando la guerra finì, tornò a casa. Aveva ventun anni, i suoi pantaloni erano troppo corti e troppo attillati. Le scarpe coi bottoni erano troppo lunghe e troppo strette. La cravatta era un allarmante complotto di rosa e viola meravigliosamente avvolti in volute, con sopra due occhi azzurri sbiaditi come un vecchio brandello di stoffa di prima qualità, lasciato a lungo alla luce del sole”.
In quella claudicante medietà, tuttavia, Jim si era arroccato nella certezza della propria solitudine. Almeno finché il suo amico Clark non vi aveva fatto irruzione, armato di una delle poche prospettive che avrebbe potuto destarlo con inquietudine: l’invito ad una festa. Qualche scaramuccia di circostanza, una rimuginata qua e là tra il chiasso di un’officina e il silenzio di un chiaro di luna, e poi la decisione di accettare. L’imbarazzo, inevitabilmente, a farla da padrone. Fino alle dieci e mezzo di quella sera. Quando, dopo quindici anni dall’ultimo dialogo, davanti a lui ricomparve lei: “Nancy Lamar era uscita dal guardaroba. Era vestita di organza gialla, un abito dalle cento morbidezze, con tre giri di balze e un grosso nodo sulla schiena, tanto da emanare intorno a sé una sorta di lucentezza gialla e nera fosforescente. Gli occhi di Patata Lessa si spalancarono e gli si formò un groppo in gola”. Come spesso accade nella scrittura di Fitzgerald, la mondanità si agita tumultuosa sulla pagina, ma non rimane che un pretesto. Non rimane che una sfavillante mascherata in cui qualcuno riesce reciprocamente a lanciarsi un segnale oltre il trucco. Improvvisamente, Jim era riuscito a rammentare quale fosse il volto del suo sogno: un amore sopito, ma mai realmente spento, per la splendida giovane destinata al matrimonio con il rampollo di un’importante famiglia di imprenditori.
Nella finzione di quel divertimento forzato, artificiale, surrogato di un vuoto che qualche passo di charleston non poteva certo colmare, Patata Lessa aveva appreso la verità su sé stesso. Si era diretto nella veranda dell’abitazione adibita a luogo della festa per rimanere solo. E lì, invece, si era ritrovato davanti proprio Nancy, disperatamente in cerca di un rimedio per una gomma attaccata alla scarpa che le impediva di ballare. “Be’… credo che forse la benzina…” le aveva timidamente sussurrato. E aveva iniziato a svitare i serbatoi delle auto parcheggiate lì di fronte. Solo per renderla felice. Qualche scrollata aggraziata di piedi e poi, tra i due, una fiaschetta sotto gli occhi attenti della luna. Nessuna festa, nessuna moltitudine avrebbe potuto pareggiare quel momento. Il momento in cui Fitzgerald dipinse l’America – e tutto ciò che sta fuori – non nella cipria e nei lustrini di quei moderni satiri danzanti, bensì negli occhi di due ragazzi isolati dal resto. Con la notte come unico sfondo delle loro confessioni. “L’unico rimpianto che ho – aveva detto Nancy – è non essere nata in Inghilterra. La gente da quelle parti ha stile. Qui nessuno ha stile. Voglio dire, per i ragazzi di qua non vale la pena di vestirsi bene o fare qualcosa di sensazionale. E a me piacerebbe farne di cose sensazionali, eccome. Sono davvero l’unica ragazza in città ad avere stile. Pensa avere una barca. Pensa spiegare le vele su un lago d’argento, come il Tamigi, per esempio”. Jim era solo riuscito a raccomandarle di non bere troppo e a prendersi una ramanzina per questo, prima di separarsi momentaneamente. L’aveva poi aiutata a vincere e a recuperare i soldi persi al gioco dei dadi, lui che almeno sul verde del tavolo da biliardo qualcosa aveva imparato. Si era persino guadagnato un bacio, e un “ti amo” parecchio brillo detto ad alta voce.
La sera si era dileguata. E con essa anche la notte. Patata Lessa aveva sentito in sé qualcosa di nuovo. La voglia di partire, di esplorare, di affermarsi in quel mondo che fino a quel giorno aveva vissuto passivamente. Per lei, per Nancy, ne sarebbe valsa la pena. Sarebbe valso lo slancio, l’ottimismo ritrovato, la vita sconosciuta da afferrare senza più paure. Sarebbe stato come lei: libero di sfiorare le increspature dell’acqua. Ma era stato ancora Clark ad irrompere senza preavviso. Gli aveva comunicato che Nancy, quella stessa notte, in preda all’ubriachezza, aveva sposato il cavaliere che l’aveva accompagnata alla festa. A nulla erano valse le sue lacrime di pentimento. La famiglia di lui l’aveva costretta a trasferirsi. In un’altra piccola, sperduta località della Georgia. “È un vero peccato – aveva chiosato Clark –. Non intendo il matrimonio; quello ci può stare, anche se penso che a Nancy non importi un fico secco di quel tipo. Ma è un crimine che una bella ragazza così faccia soffrire la famiglia in quel modo”.
Anche stavolta Jim aveva avvertito qualcosa. “Devo andare. Sono in piedi da troppo tempo, sto proprio male”. Qualcosa di estremamente familiare, lo aveva riportato sullo scomodo sgabello di una bettola, con in mano una stecca da biliardo. Prima ancora di poterlo stringere tra le braccia, il sogno americano, il sogno dell’amore e della giovinezza, il sogno di rimediare agli anni sprecati, si era dissolto. Il sogno americano era durato appena il tempo di una festa.
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