C’è un modo di vivere come se Cristo non fosse presente, non fosse di carne. Una vita così ci riduce a spettatori e servi del mondo
“Non possiamo concepire Cristo non incarnato. ‘Non incarnato’ vuol dire non dentro il linguaggio, la sintassi, il gioco di sensibilità, le urgenze, le passioni, le aderenze, i gusti e le ripugnanze propri di quel popolo. Analogamente non può esistere un cristiano se non dentro la trama in cui Dio lo mette, trama storica e sociale, momento storico e contesto sociale. Non si può concepire un uomo al di fuori dei problemi. Perciò il disagio che sempre questo tipo di questione ci ingenera è dovuto non all’astrattezza, allo spiritualismo inutile, emotivo o teorico di certa parte della Chiesa, ma alla nostra non-umanità. È la rigidezza, è l’aridità, è il deserto, è l’indifferenza, è la pesantezza della nostra umanità il problema: non siamo vivi come uomini. Questo tipo di disagio nasce solo da lì, perché la carne e le ossa, con quello che c’è dentro e quello che viene fuori, appartengono alla definizione del cristiano” (Luigi Giussani, Un volto nella storia, Rizzoli, Milano 2025, pp. 18-19).
Arriva dritta al cuore della questione la provocazione che don Giussani lanciò già alla fine degli anni 60. Basta poco per cadere nel tranello di un Cristo senza carne, senza spessore umano, senza voce e, quindi, senza una vera utilità.
La prima conseguenza è che manchiamo noi, come uomini, nella realtà. Manchiamo a noi stessi anche se tutto pare affermare il desiderio di esserci. Vogliamo esserci, e dire la nostra, nelle questioni che riguardano le guerre in atto. Vogliamo esserci, e dire la nostra, davanti a chi chiama dignitosa una morte cercata come rimedio alla malattia.
Vogliamo esserci, e dire la nostra, alle migliaia di giovani radunati in questi giorni a Roma per il Giubileo. Vogliamo esserci, e dire la nostra, davanti a un certo modo malato di fare politica per cui se uno viene travolto nelle sabbie mobili devono per forza seguirlo anche gli altri.
Mentre, però, investiamo tutte le energie per dire la nostra su tutto e a tutti, potremmo correre il rischio di non accorgerci di non essere più “vivi come uomini”.
Giorgio Gaber aveva fotografato questo rischio, con la genialità che gli è propria, nel monologo E Giuseppe? (1973): “ No, no Giuseppe è un nostro amico no, che io non vedo da un sacco di tempo. Lui sta lì, abita lì vicino. Lo vede praticamente tutti i giorni. Ho saputo che è stato male, che ha avuto dei casini, gravi, anche la moglie, cose così proprio, va beh, allora vado lì e gli dico: scusa, come sta Giuseppe? E lui: ‘Vedi, il capitalismo nella misura in cui è costretto a reprimere i focolai si scontra con le sue contraddizioni interne’. Si dico, è giusto effettivamente, ma io adesso dicevo Giuseppe, ho saputo che… ‘Ah!’ fa lui, ‘ormai lo sanno tutti, sì, lo sanno tutti, la CIA ha avuto il peso che ha avuto nel golpe’. Sì, sono d’accordo, no no sono, ma io adesso dicevo Giuseppe, Giu.. ‘ah – fa lui – ma allora tu non hai seguito, è chiaro non hai seguito. Dayan usa i phantom degli americani, gli arabi hanno i SAM-6 lancia missili, che i russi hanno dato a Sadat’. Ma scusa, non era un tuo amico? ‘Chi Sadat?’. Ma no, Giuseppe! ‘Ma che importanza vuoi che abbia Giuseppe’ mi fa lui, ‘di fronte al Vietnam, alla Cambogia. Io soffro per altre cose. Mi fa male il mondo’. Gli fa male il mondo? A me fa male Giuseppe, la moglie, i figli…”.
C’è un modo di intervenire, di dire, di ribadire, di raccomandare, di giudicare, che non è in grado di entrare nel merito delle questioni, anzi, le sorvola. Iniziative che ci lasciano come ci hanno trovati, parole che muoiono un istante dopo essere state pronunciate, meditazioni e riflessioni che passano sopra la testa di chi le ascolta.
È il festival della mancanza di noi. Come se fossimo fuori dai problemi, dalle vere sfide del tempo, da ciò che muove il cuore dell’uomo. Così, e basta poco, il problema è sempre un altro: il nemico da combattere, i social da evangelizzare, i giovani da riconquistare, gli erranti da convertire, la Chiesa da cambiare, la politica da dominare… l’importante è che io possa rimanere seduto in poltrona a seguire le vicende, in attesa del vincitore.
Ci salva il fatto che “la carne e le ossa, con quello che c’è dentro e quello che viene fuori, appartengono alla definizione del cristiano” e, perciò, non potremo cavarcela con le nostre furbe analisi o con qualche mobilitazione improvvisata. Se manco io non accade nulla. Se non cambio io non cambia nulla.
Converrà, dunque, prendere sul serio la domanda di Qoèlet contenuta nella prima lettura di oggi: “Quale profitto viene all’uomo da tutta la sua fatica e dalle preoccupazioni del suo cuore, con cui si affanna sotto il sole?” (Qo 2,22), per non ritrovarci al balcone osservatori della vita altrui, perdendo l’occasione di goderci la mossa dell’umano che c’è in noi. Basta poco per dire io.
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